Odio i suoi romanzi chilometrici, i suoi protagonisti monocorde, le sue fotocopie biografiche di professori e scrittori nevrotici.
Odio sopratutto i suoi finali rassicuranti, i suoi mostri borghesi, le sue violenze sempre nel giusto mezzo, nella giusta situazione, nel giusto tenore.
Odio i brividi che regala(va) alle sue lettrici casalinghe e cinquantenni, la falsa rassicurazione di un terrore che non è mai vero terrore, di uno psicopatico contenuto, controllato, levigato quel tanto per tenere col fiato sospeso il lettore senza mozzarglielo quel fiato, mutilarlo, spingerlo in un angolino a piangere balbettando.
Odio il suo Maine piovoso e tranquillo, le sue famigliuole benestanti intente a compiere atrocità con la stessa calma con cui pagano le tasse, portano i figli a scuola, pregano e bestemmiano.
Odio le sue cittadine tranquille, sonnolente, dove tutti hanno un lavoro, una pensione, un'assicurazione sanitaria, una vita da felici pezzi di merda soddisfatti di vivere dentro un bozzolo di mediocre privilegio.
Ovviamente no, non odio Stephen King. Ho passato tre anni delle Superiori a leggerlo, spazzolando ogni suo libro dalla biblioteca popolare: come potrei odiarlo?
E tuttavia, solo Satana sa quanto odio le risoluzioni borghesotte delle sue storie, la vittoria spicciola del bene sul male, senza la minima sfumatura morale, la minima sovversione, la minima sorpresa che contraddica l'ordine costituito.
Non sono versato nella storia dell'horror a sufficienza da sapere se lo Splatterpunk di fine anni '80/inizio anni '90 fosse un urlo di rabbia verso un mondo ideale (perchè quello di King E' un mondo ideale) insidiato da una minaccia (un mostro, un alieno, un killer) esterna. Probabilmente si mirava a colpire i film horror con cui questi autori erano cresciuti tra gli anni '50 e '60, dove sporco e povertà erano ancora bene nascosti sotto il tappeto di famiglia.
Tuttavia, mentre leggevo questo “In fondo al tunnel”, romanzo della coppia Skipp&Spector del 1986, pensavo con soddisfazione, “Fuck you, King!”.
Questo è vero horror.
La storia tradizionale horror prevede un nucleo, sia comunitario che famigliare, la cui integrità viene violata (discordia, rottura, violazione fisica e sessuale, morte ecc ecc) da un agente esterno, proveniente da fuori. Molto dell'horror che si propone di capovolgere questo stereotipo in realtà si limita a dissimulare il carattere “estraneo” dell'elemento introdotto dallo scrittore. Un membro della famiglia posseduto resta posseduto da un nemico “esterno”, anche se apparentemente può sembrare un'aggressione “dall'interno”.
Lo Splatterpunk si propone una riflessione molto più sovversiva e, se volete, molto più terrorizzante.
L'horror infatti non è portato da fuori, ma costituisce un elemento integrante della società in cui viviamo. Non si tratta del banale capovolgimento del secondo dopoguerra, che lentamente sostituì con ambientazioni urbane contemporanee lo sferragliare di catene dei vecchi romanzi gotici. Piuttosto nello splatterpunk si teorizza come l'horror sia una delle fondamenta di un mondo, come il nostro, malato alla radice, irrimediabilmente marcio. L'horror non “perturba” un bel niente, ma sostiene, supporta e reprime ogni minaccia a questa società. La società può essere malata, perchè l'uomo è una bestia che divora i più deboli, perchè l'economia spinge a una competizione sfrenata dove non c'è spazio per la pietà, i sentimenti, le debolezze.
L'elemento soprannaturale, quando compare, è un'emanazione di quella stessa società che lo disprezza, è perfettamente inserito dentro un sistema che l'ha partorito, cresciuto, vezzeggiato in primo luogo. I mostri dello splatterpunk si muovono completamente a loro agio dentro un sistema crudele e inumano – che è il nostro. Ne sono anzi i più accaniti difensori.
Come il -punk dello steampunk dimostra il lato oscuro, le conseguenze negative, i “travolti” dal progresso della fantascienza vittoriana, così il -punk dello splatterpunk svela la faccia sordida, demente, mostruosa del mondo dove viviamo. Il mostro dello splatterpunk non deve più fingere, può finalmente gettare la maschera e svelare tutta la sua perversione. E ovviamente, accanto a questo elemento, si affianca una descrizione e un'azione volutamente sanguigna, che non risparmia particolare per quanto agghiacciante, che metodicamente colpisce il lettore con la delicatezza di un martello pneumatico, di uno schiacciasassi lanciato a mille lungo un pendio. Ovviamente lo “splatter” è stato da subito la caratteristica meglio cooptata dal mainstream, facilmente assimilata dal mercato. C'è un limite, superato il quale, il semplice uso del gore è cattivo gusto, o peggio, una banalità tra le tante. Oggigiorno, su quel filone, c'è poco da imparare.
“In fondo al tunnel” è un'opera seminale dello Splatterpunk, dove il binomio -splatter e -punk è chiaramente leggibile nel testo senza bisogno di particolari occhiali. Lo si vede, è facilmente distinguibile tra una descrizione ricca di gore da un lato e una descrizione sociale dei disagi di New York dall'altro.
Prima metà anni '80, New York reaganiana. Povertà, inquinamento, tensioni da guerra fredda, cultura spazzatura, Wall Street unregulated, famiglie borghesi all'assalto, yuppies all'assalto, nerd all'assalto, sub culture all'assalto. Gang dominano la notte, sbandati e reduci il giorno. Pazienti degli ospedali psichiatrici liberate dal libero mercato che taglia le cure mediche affollano le strade. I punk degli anni '70 muoiono nelle metropolitane, punk wanna-be coi soldi di papà si fanno belli con qualche graffito e qualche canzone oscena. Rudy Pasko è uno di loro, un insopportabile artista punk che oggi definiremmo “edgy”, che si fa mantenere dall'amico aspirante scrittore, Stephen.
Una notte, in una corsa in metropolitana, Rudy è vittima di un attacco di un vampiro, Nosferatu stesso, in trasferta turistica nella città coloniale. Il giovane punk viene morso e diventa un vampiro – una creatura succhiasangue che vaga per la metropolitana, a malapena conscio dei suoi istinti, dei suoi poteri, di cos'è diventato. Un vampiro capriccioso, una sorta di goth ante litteram che si strugge per il dramma di essere diventato un vampiro, uccidendo e mutilando nel frattempo qualunque sventurato gli capiti a tiro. La polizia lo ignora, non indaga: immerso in un ambiente a lui famigliare come la metropolitana sudicia e graffitara di metà anni '80, Rudy è il re della notte dei pezzenti.
A fronte del disinteresse totale delle forze dell'ordine, che giungono a ignorare uno degli zombie/vampiri di Rudy, che brucia alla luce del sole, si forma una rag-tag di scribacchini, geek e semplici lavoratori, che presto trasformano il loro interesse per le uccisioni alla metropolitana in una vera e propria caccia al vampiro.
Skipp e Spector sfruttano la struttura a più personaggi, multidimensionale, resa popolare in quegli anni da Peter Straub e Stephen King. A disposizione del lettore, oltre a Rudy e alla voce incorporea di Dracula, troviamo Joseph Hunter, principale protagonista, Stephen Parrish, l'ex amico di Rudy, Josalyn Home, l'ex ragazza di Rudy, Harmond Hacdorian, un sopravvissuto dell'Olocausto che immediatamente intuisce cosa sia successo a Rudy, e tanti altri, comparse occasionali che non hanno granché tempo per svilupparsi psicologicamente prima di venire azzannate a sangue.
Skipp e Spector mescolano due potenti archetipi da sempre presenti nel mondo dei vampiri: da un lato, lo scontro/inseguimento tra il vampiro e la banda di cacciatori del male; dall'altro il tema del vampiro “tagliato” dalle sue origini europee, costretto a vivere per suo conto in una terra straniera, disperatamente alla ricerca di una nuova casa da infestare da buon parassita.
Compaiono pertanto sia Scott che Anne Rice, ma a differenza di Dracula e Intervista col vampiro, non ritroviamo qui nessuna simpatia o fascino per Rudy, la cui ristrettezza mentale, il cui spirito infantile e vendicativo trovano un potente amplificatore nella trasformazione da vampiro. Ci troviamo di fronte in questo caso alla terrificante prospettiva di un artista viziato e frustrato che all'improvviso ha conquistato immortalità e potere di vita e di morte ben al di là di quanto lui stesso comprenda. Skipp e Spector sono in tal senso maestri nell'offrire un antagonista autenticamente antipatico, una nemesi che è un artista da strapazzo, un fricchettone arrogante e violento.
Skipp&Spector erano piuttosto auto-ironici... |
Joseph Hunter, l'eroe del romanzo, è un “buono” della storia, borderline con il fanatico: nelle prime pagine del romanzo la madre muore dopo una lunga agonia, paralizzata a letto dopo essere stata bastonata da una gang. Hunter, il cui lavoro come spedizioniere (un Bartoli degli anni '80) lo porta in giro per tutta Manhattan, vuole disperatamente combattere un male che vede pervasivo nella Grande Mela. Skipp e Spector sono particolarmente bravi a descrivere un ambiente urbano degenerato e deprimente, un chiaro terreno di coltura per la nascita del vampiro Rudy.
I commenti freddi e puritani di Joseph ricordano in tal senso le annotazioni del diario di Rorshack, di Watchmen (pubblicato in quegli stessi anni, per altro...)
Per la strada...Joseph Hunter, torvo davanti alla desolazione. Adolescenti, che offrono droghe pesanti e pompini, punteggiano i marciapiedi come sacchi della spazzatura in gruppi di tre, quattro, cinque. Nonne rannicchiate dietro finestre chiuse. Sfavillio di taxi e di insegne di bettole. Di tanto in tanto il balenio dell'acciaio.
Skipp e Spector sanno come caratterizzare un personaggio, descrivendolo con quei tic che lo rendono autentico e caro al lettore; “In fondo al tunnel” deve la sua meritata fama a un cast di comprimari e semplici comparse con i loro difetti e la loro umanità. Va anche però osservato come Skipp e Spector non sappiano quando fermarsi, al momento di descrivere la psicologia di un protagonista. La seguente descrizione di Joseph Hunter ne è un ottimo esempio:
«Oddio, maledizione!» grugnì Joseph, affrettandosi a tacitarlo. Odiava quell'affare, il suo stupido bip bip, come odiava la sveglia, il telefono, le campanelle della scuola della sua adolescenza: la voce stridula, perennemente lamentosa della civiltà. Odiava il modo in cui gli si conficcava nel fianco, appeso alla sua cintura come un parassita gonfio di sangue, fastidioso come una pulce.
Abbiamo qui una descrizione esasperata, che da un lato risulta efficace nella metafora cercapersone/ zecca, dall'altro si trascina per quattro righe, con espressioni magniloquenti tranquillamente evitabili, da “perennemente lamentosa” a “stridettero con terrore”, un paio di righe prima.
Lo stile di scrittura della coppia nel 1986 era ancora acerbo e alterna momento di grande narrazione ad abissi di stupidità. La corrente Splatterpunk cercava di riprodurre su carta la sensazione del cinema, i sobbalzi di uno slasher; compaiono pertanto frasi ad effetto, eccesso di esclamativi, rigurgiti di corsivi e peggio di tutto passaggi di frasi mozze e corte, a volte soltanto un verbo, o una parola, o un diluvio di puntini di sospensione. Fortunatamente la gran parte del romanzo è scritta bene, con uso dovuto del mostrato e solo occasionalmente qualche informazione gettata lì dal narratore: tuttavia occorre segnalare alcuni momenti per l'appunto lirici assolutamente imbarazzanti.
Sull'aspetto -splatter della scrittura di Skipp e Spector, va riconosciuto come in Italia risulti ancora un elemento di novità per una massa di lettori che alterna spazzatura sentimentalista e religiosa. Mentre la scena horror anglo-americana riconosce il gore di questi romanzi come ormai sorpassato, in Italia il romanzo medio è talmente mogio, talmente pauroso del lettore (una sorta d'inversione dell'horror, dove dovrebbe essere lo scrittore a spaventare il lettore, non viceversa), che “In fondo al tunnel” conserva ancora la sua forza primordiale. Lo so, lo so, ho letto autori horror italiani, so che non hanno nulla da invidiare al resto del mondo: nessuno di loro però viene pubblicato o ha un parco lettori paragonabile alle grandi case editrici. E' semplicemente impossibile per un lettore che vada in libreria leggere un Vergnani, o un Marolla.
Gli anni '80 del romanzo costituiscono un'arma a doppio taglio, a seconda dell'atteggiamento del lettore nei confronti del periodo: non sono nostalgico (ehi, sono nato nel '92!), ma non credo che gli aspetti -retrò del setting danneggino la lettura. “In fondo al tunnel” è una capsula del periodo, fedele alla bassa Manhattan del tempo: nessun dettaglio che sia spiacevole o grottesco viene trascurato. Alcune lunghe descrizioni possono risultare indigeste:
E indifferente rimase davanti ai ragazzetti che violavano la legge facendo baccano nella fontana; ai poliziotti che dovettero cacciarli via, sebbene anche loro stessero arrostendo; al trio che suonava jazz in un angolo, con il chitarrista che maneggiava selvaggiamente la sua chitarra; all'attore circondato da un pubblico chiassoso e isterico; agli artisti mendicanti, agli omosessuali in abiti attillati che correvano sugli skateboard e ai presunti intellettuali di ogni genere e specie.
Il romanzo però mantiene valore come documento storico del periodo, oltre a testimoniare quella dissoluzione -punk e quel nichilismo descritti nell'introduzione.
E' interessante come aspetti oggigiorno dati per scontati siano difficoltà insormontabili per il 1986: l'uso per coordinare la caccia di cercapersone e telefoni a gettone, perchè i walkie talkie costerebbero troppo. Molti riferimenti pop sono per altro del tutto sconosciuti: non ho idea di chi siano gran parte delle band nominate, così come non so cosa siano i “magie maker” (pennarelli indelebili?).
Vi sono alcune scene chiaramente debitrici dell'horror di punta del periodo, come il seguente attacco di Rudy a un barbone in metropolitana:
Ne fu sedotto. Ormai il portafogli era così vicino che riusciva quasi a sentire l'odore della pelle. Superò vacillando la riga gialla, cadde sulle ginocchia e allungò lentamente una mano tremante. «Ragazzi» ripeté. E allora la mano saettò dal basso: così fredda, così veloce che Fred ebbe appena il tempo di sussultare prima che lo afferrasse per il polso e lo trascinasse, a testa in giù, verso i binari...
La scena, visivamente, è identica a It (1986), di Stephen King: al posto del bambino, il mendicante, al posto del pagliaccio un vampiro e al posto del palloncino un portafoglio. L'attacco improvviso è rapido e inaspettato come nel film/romanzo omonimo.
Abraham Setrakian/Harmond Hacdorian |
Sempre nell'ambito di riferimenti incrociati e possibili influenze, è possibile che Guillermo del Toro abbia letto “In fondo al tunnel”, che all'epoca divenne un bestseller largamente diffuso e tradotto. La serie vampirica “The Strain”, infatti, presenta un vecchio cacciatore di vampiri, Abraham Setrakian. Abraham è di origine armena, mentre Harmond Hacdorian è romeno. Abraham è un reduce dai campi di concentramento, esattamente come Harmond: entrambi hanno vissuto orrori tali da rendere i vampiri un passatempo trascurabile. Particolare tuttavia notevole, Harmond non s'interessa minimamente di trovare un collegamento tra i nazisti e i vampiri: Rudy Pasko è solo una creatura abbietta, un vampiro odioso perchè viziato&crudele. Per chi è reduce dai totalitarismi novecenteschi, un punk assetato di sangue è robetta da poco.
Tuttavia, c'è una certa somiglianza:
Armond Hacdorian era un tranquillo, dignitoso, pacifico vecchio gentiluomo di origine romena. Con l'abito fatto su misura e il bastone da passeggio intagliato, assomigliava parecchio a Sir Lawrence Olivier in I ragazzi del Brasile: lo stesso aspetto fragile e gradevole, non tanto avvizzito quanto segnato e logorato dal tempo.
(...)
Ma se c'era un orrore che Armond Hacdorian non era disposto a sopportare, era quello di trovarsi seduto a fianco di un giovane neandertaliano con una radio grande il doppio della sua testa...
La caccia a Rudy Pasko, oltre al dislivello tencologico, si distingue da altre cacce di questo genere per il basso livello dei suoi "cacciatori": tutti indistintamente poveri, mal equipaggiati, alle prese con problemi mentali e fisici di ogni genere. Rudy è un vampiro tradizionale nel senso che reagisce all'acqua santa e alle croci, ma possiede una capacità di rigenerazione degna di un horror moderno. Skipp e Spector ci regalano spesso descrizioni dettagliate del vampiro squagliato dall'acqua santa, bruciato dalla croce, innaffiato nel sangue di una povera vittima.
Joseph, come tutta la sua posse fuma sigarette come se non ci fosse un domani, mentre i più giovani del gruppo fumano canne e giocano a D&d. A tratti mi sono chiesto se Skipp&Spector fossero pagati dalla lobby degli alcolici, perchè non c'è protagonista che non tracanni due birrette prima di andare a caccia di Rudy. Tra morti improvvise, incidenti, lacrime e ubriacature i nostri eroi fanno fatica a star dietro a Rudy, cadono continuamente in trappole, incespicano sugli errori più comuni.
E' tuttavia notevole che per la prima volta Rudy sia riconosciuto un vampiro dai film e dalla letteratura: Skipp e Spector esplicitamente sputano in faccia alla Anne Rice e non c'è geek nella storia non si riferisca alla moda dei vampiri che all'epoca imperversava.
Purtroppo un'altra critica dovuta a un romanzo corale costantemente sull'acceleratore è quanto poco i personaggi si evolvano con il progredire della storia. Joseph non è un uomo, è un monumento, un iceberg, un blocco di granito inamovibile; Stephen non è solo codardo, è un pauroso nervoso scribacchino incapace di prendere una singola decisione corretta per tutto il romanzo. E purtroppo Skipp e Spector trascurano la metà femminile, sostanzialmente priva di qualsiasi caratterizzazione, poco più che un trastullo per Rudy. Letteralmente per Josalyn l'unica risoluzione è trovare un nuovo fidanzato, annullandosi in esso. Non proprio il massimo, per una corrente come lo Splatterpunk che si definiva all'avanguardia.
Pur quindi con queste perplessità relative alle sbavature nello stile di scrittura e a un'eccessiva dispersione di personaggi secondari, “In fondo al tunnel” è un grande romanzo, perfettamente posto all'intersezione tra il vampiro di Stoker e/o Anne Rice e il vampiro come alieno/virus dei tempi recenti (in particolare, come detto, in riferimento a Guillermo).
Fonti:
In fondo al tunnel, di John Skipp, Craig Spector, Fanucci Editore (Ibs)
In fondo al tunnel, di John Skipp, Craig Spector, formato kindle (Amazon)
Nel formato ebook, “In fondo al tunnel” viene spesso offerto a 1.99 dalla Fanucci.
Encyclopedia of the Vampire: The Living Dead in Myth, Legend, and Popular Culture by S.T. Joshi, John Edgar Browning.
Per le copertine delle prime edizioni negli anni '80 presenti nell'articolo:
4 commenti:
Premettendo che non ho letto il libro, ma ho le tue stesse considerazioni su Stephen King. Ha impattato nella pop culture, nel bene e/o nel male.
@Marco Grande Arbitro
E' ormai parte del background dei lettori di genere, basti guardare i battibecchi sul reboot del film di It.
Se sei interessato ad approfondire il discorso sullo Splatterpunk all'epoca Mondadori aveva pubblicato un antologia curata da Paul M.Sammon che conteneva una selezione di racconti e saggi sull'argomento (il titolo è Splatterpunk). In merito al romanzo di Skipp e Spector l'ho sempre trovato uno dei pochi casi in cui si è realmente riusciti a variare almeno un pò il canovaccio ereditato da Dracula.
P.S. King continua a piacermi ma ammetto tranquillamente che non riuscirei mai a rileggermi i suoi interminabili romanzi, non ne avrei la forza (discorso diverso per i racconti).
@Fra Moretta
Benvenuto sul blog!
Non conoscevo l'antologia, grazie della segnalazione, vedrò di battere rigatterie e bancarelle dell'usato, ogni tanto capitano ancora rigurgiti di paperback dell'ondata anni '80.
Nulla da togliere a King, che ha fatto tanto per "popolarizzare" il genere dell'horror, allargando (nel bene E nel male) il numero di lettori di genere...
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