Una bevuta al bar
Nel cielo azzurro pastello di quel sabato mattina, qualche stella ancora brillava fioca, intrappolata nella ragnatela di un sole fosco e umidiccio. Enrico chiuse la porta di casa, assestò sulla spalla la borsa con appunti e fotocopie. Diede un'occhiata all'orologio, che scintillò sull'ora nona del mattino.
" In anticipo di
mezz'ora. Non male ". Sbadigliò. " Ancora un caffè. Uno
solo ".
Camminò verso il bar.
<< Chiuso per
malattia >>
Inghiottì una bestemmia.
" Forse per una volta
potrei accontentarmi del caffè della macchinetta... Al diavolo.
Piuttosto nulla, che quell'orrenda brodaglia imbevibile ".
- Enrico! -
Salutò il compagno di
corso, che mano sulla fronte cercava di sbirciare nella vetrina del
bar.
- Sembra proprio chiuso.
- Constatò, masticando furioso una sigaretta spenta.
- Marco. Così pare. Che
ne dici, ci avviamo a lezione? -
- Rinunciare a caffè e
brioche, vorresti dire? Piuttosto preferisco saltarla proprio, la
lezione -
- Beh dio, si sopravvive
– Enrico esitò incerto – Forse c'è qualche altro bar, nelle
vicinanze -
- Che ne dici di quello? -
Compressa nello spazio fra
la vecchia casa anni sessanta che ospitava il bar ora chiuso, e una
villetta di recente costruzione, Enrico d'improvviso notò una
piccola costruzione neoclassica, dal bianco dei capitelli sporchi di
catrame. Un'insegna di legno mangiato
dalle tarme oscillava lenta, alla brezza del mattino.
- Un pub? - azzardò
Marco, perplesso. - Mal che ci vada, ci facciamo una birra -
- Alle nove del mattino?
Pessima idea – Sospirò Enrico, tuttavia segretamente stuzzicato.
Spinse la porta, salutò con
un fiacco buongiorno.
L'interno puzzava di alcool,
polvere e tarme. Un paio di avventori trincavano al banco caffè
corretti, gomiti nudi poggiati sul legno sudicio. La barista,
prosperosa ragazza con il volto scavato dal sudore, azzardò un
debole sorriso. Enrico gettò lo zaino sul tavolo più vicino,
aspettò di ordinare. Passò l'indice sul legno della sedia,
meravigliato. La sedia era scolpita in curve floreali, una ninfa
intagliata sorrideva nell'incavo del poggiamano. Esaminò il bar con
maggiore attenzione. L'arco acuto delle finestre era stato decorato
con vetrate colorate, episodi di santi e sacrifici su altari
primordiali. Il soffitto a volta s'incurvava sotto lo sguardo
dell'avventore, dando l'impressione di volerlo inghiottire. Tralci
filamentosi di piante rampicanti soffocavano sbrecciati mosaici di
tessere rosse.
- Allora, birra o caffè?
-
- Caffè, perdio. Caffè.
Dovremmo frequentarli, i corsi, Marco. Frequentarli. -
La barista accorse con un
blocchetto di carta in mano, chiese secca:
- Cosa prendete, ragazzi?
-
- Un caff -
- La specialità della
casa, per entrambi – Soffiò Marco, sogghignando.
- Davvero? - La barista
rischiarò la fronte contratta, esibì un sorriso spacca mascella.
Saltellò sugli stivaletti. - Ma è splendido! Finalmente! -
Marco annuì, diede di
gomito a Enrico che strinse i pugni.
- Veramente... - Iniziò.
- Ci vorrà un po',
sapete. Non è bevanda per stomaci deboli – Continuava la barista
– E non ci assumiamo alcuna responsabilità, nel caso vi
succedesse qualcosa. E' tutto previsto nel contratto -
- Ma naturalmente –
Chiuse Marco. Persino Enrico concordò stavolta. Era probabile che
qualche stupido malaticcio pusillanime avesse provato la birra
migliore di quel pub, e fosse schiattato.
Peggio per lui; ma loro
erano uomini, perdio! E contratti del genere li siglavano a occhi
chiusi.
La barista tornò
trotterellando con due bicchieri fumanti. Sottili calici in cristallo
smaltato, dallo stelo forgiato in nervature d'argento. Enrico lo
sollevò con cautela, scrutò all'interno. Un fumo verde si levava
dalla superficie, un caleidoscopio di colori brillanti. Il vetro era
talmente freddo da bruciare la mano, un sentore penetrante di
ghiaccio che intorpidiva le dita.
Strizzò l'occhio a Marco.
Conosceva più di un barista che sperimentava in proprio, e ne aveva
visti di cocktail malsani; ma sia nella presentazione che
nell'aspetto quello li superava tutti.
- Emh... Ha un nome,
questo "coso" – Domandò Marco, con sopracciglio
inarcato.
- Assenzio maturato in
botti di cedro, signore. Mescolato con lacrime dei ragni senzienti
dell'Al Di Qua, ammorbidito con gocce di sangue di fata -
- Ah – Enrico esitò,
prima di bere un primo sorso. Gli ricordò l'Hemingway, solo ancora
più aspro – Certo, che vi piacciono, le metafore... -
- Metafore? Sta
scherzando, signore – Rimproverò la barista. - I nostri sono
ingredienti originali, mescolati secondo le ricette di mastro
Lovecraft -
- Ma Lovecraft non
cucinava... - Protestò Enrico.
Al terzo sorso, il gusto
cambiò. Sbatté le palpebre, ebbe la nauseante sensazione di
lacerare un involucro lattiginoso e appiccicaticcio. Lo stomaco era
in subbuglio, qualcosa stava nascendo al suo interno, spalancava le
zanne, apriva occhi ciechi. Allontanò lo stelo infuocato, ma la
barista glielo avvicinò alle labbra, con la delicatezza di una madre
che abbeverasse il figlio. Inghiottì ancora, e ancora. Una mano
raspava nella sua trachea, lacerava in spasmi di sangue la sacca
dello stomaco. Qualcosa batteva contro la pancia. Un mostro, un
bambino. Ne era terrorizzato. Chiuse gli occhi, poi al momento di
riaprirli li scoprì sigillati, chiusi con sottile filo di ragnatela.
Strisciò con la mano, ma d'improvviso la sentì disgregarsi,
fondersi in una pala di carne, dita fuse in una patella di muscoli
spugnosi. Aprì la bocca per urlare, per chiedere aiuto, ma la sentì
spalancarsi sul ginocchio, sulla tempia, sulla punta del mignolo del
piede. Il naso scendeva sul mento, si scioglieva e gocciolava come
cera sotto il fuoco. Urlò.
Vomito. Le gambe tremavano,
le ginocchia schioccavano come ossa di uno scheletro. La fronte
sembrava stretta in una corona di spine, tanto era il dolore.
" Fottuto dopo sbornia
"
Sputò un fiotto di liquido
giallo dall'esofago, scatarrò qualcosa. Un omuncolo si contorceva
nella pozza. Un feto tutto zanne, dai lineamenti rozzi plasmati
nell'argilla. Enrico strillò, calciò indietro. Sbatté schiena
contro schiena su un esausto Marco.
- Dove cazzo –
Balbettò.
Erano in una casa dal
soffitto di un metro scarso, col mobilio intagliato a dimensione
bambino. Non c'erano finestre, e le pareti di terra e roccia
stillavano rivoli di rugiada. Qualche radice gigantesca spuntava ogni
tanto, arto sepolto. Tazzine da te, un pentolino. Un piccolo armadio
esibiva una lunga fila di abiti seicenteschi. Gorgiere e merletti,
maniche a sbuffo. A dimensione d'infante, a dimensione di...
- Visitatori! Finalmente!
- Viso triangolare e occhi a mandorla, bocca innaturalmente larga,
costellata da minuscoli denti appuntiti. Toccò con il mignolo il
naso gocciolante di Marco, svolazzò via con frullio di ali
d'insetto.
- Cosa... -
La fata allungò una manina
delle dimensioni di un bambino di tre anni, che Enrico strinse con
occhi spalancati. Mezzo metro d'altezza, maniere spigliate da
scaricatrice da porto; la fata svincolò dalla stretta, corse a
prendere paletta e scopa. Afferrò l'omuncolo e lo infilò urlante in
un tritarifiuti a molla. L'omuncolo scomparve in una nuvola di sangue
vaporizzato.
- Oh meglio – Sorrise –
Vedo che il trasferimento via Etere ha funzionato alla perfezione,
dopotutto. Era dai tempi di Burroughs, che non mi arrivava qualcuno
-
- Burroughs? Il pasto
nudo? - Marco si strofinò gli occhi rossi, gemette.
- Adorava questo posto.
Ci tornava spesso, a fare rifornimento dei nostri migliori
inebrianti -
- Perché... - incominciò
Enrico. Pregò che si trattasse di un'allucinazione senza
conseguenze. Mentalmente già preparava una lunga serie di scuse a
professori, amici e genitori.
- Sssh – Sussurrò la
fata. - Perché prima non beviamo tutti assieme un buon tè? -
propose, palmi delle mani riuniti come una casalinga sollecita.
Enrico esitò. L'allucinazione sembrava un sogno da Lsd, e quella
nota d'Alice nel Paese delle Meraviglie rendeva il tutto ancor più
straniante.
- Perché no? - Accettò.
Il tè sapeva di zucchero e
ammoniaca, assieme a un vago sentore ammorbidente e straniante che
ricordò a Enrico la morfina che un tempo aveva assunto in ospedale.
Sorseggiò un'intera tazza, scoprendosi d'improvviso assetato.
Un'entusiasta Marco chiacchierava con la fata.
Stava per versarsi un'altra
goccia di quel magico tè, quando si accorse che qualcosa luccicava
nel braccio nascosto dietro la schiena della fata. Aguzzò gli occhi,
aprì la bocca per urlare. Sentiva le corde vocali recise, occultate.
Sciolte in un'acido zuccheroso. La fata tirò una stoccata con un
pugnale argentato, infilzò occhio e cervello. Frammenti cerebrali e
plasma rosso eruttarono dallo squarcio. Enrico alzò una mano per
proteggersi, tirò a se la tovaglia. Il pugnale gli trapassò
infuocato il palmo della mano, girò nello squarcio. Si strinse la
mano, agonizzando. Un nuovo fendente gli squarciò la trachea in una
mezzaluna rossa. Buio.
I corpi dei due umani erano
distesi sul tavolo in miniatura, nudi. La fata contemplava un vasto
assortimento di strumenti da taglio, una raffinata panoplia di seghe,
coltelli e rasoi. Fece oscillare il mignolo, come una bambina che
scegliesse un pasticcino. Imbracciò decisa la sega argentata.
Collocò un mastello sotto
il bordo del tavolo, tirò a se la testa. Pose la sega sul collo, e
cominciò metodica a tritare.
" Cinque secoli. Cinque
secoli senza cibo... "
4 commenti:
Fermo restando che sono dell'opinione che l'unica fata buona è una fata morta
- LE FATE NON ESISTONO - (fuori una; crepate bastarde)
il raccontino è delizioso!
Grazie!:-D
Le fate condividono con elfi e mondo fatato una certa arroganza e narcisismo che le rendono particolarmente fastidiose... Molto meglio ripiegare sui mostriciattoli cthuliani ^^
Mi ha rapito! Perfetto il ritmo, ottime le descrizioni, precisi e lineari i dialoghi e atmosfera irresistibile. Mi hai messo Lovecraft, Burroughs, assenzio e fate nella stessa storia, come non amarla? =)
Stavo guardando pasto nudo del buon Cronemberg, e ho pensato che una citazione poteva starci :)
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