Inizio di racconto fantasy scritto qualche settimana addietro.
In attesa di limare e aggiustare la continuazione di "donne, dirigibili e brutti contadini" lo posto così integro ed essenziale.
L'ambientazione è la Bretonnia di warhammer fantasy, http://it.wikipedia.org/wiki/Bretonnia, non troppo dissimile dalla tradizionale ambientazione high fantasy.
la fin troppo |
Gelida primavera
Giaccio, rinchiuso in questa fredda pelle di metallo.
Mi ricopre gelida in un manto d’impenetrabile acciaio.
Il respiro filtra dalla celata ornata di brina, effimero riflesso di una vita spenta.
Un fioco colpo di tosse, un sussulto del corpo torturato mi strappano dal sonno.
Serro le palpebre, contraggo i muscoli irrigiditi, costringo le vecchie articolazioni a muoversi.
L’alba illumina di un chiaro candore le cime dei pioppi, carezzando la foresta in lento risveglio, giocando strani riflessi nella vicina cascata.
Cammino verso la cappella in rovina, le ossa che gemono sotto il peso dell’acciaio.
Il sole non riscalda, non fornisce il minimo ristoro.
Sotto le piastre sporche di verde e la cotta arrugginita il freddo continua a tormentarmi.
Custodisco la cappella da tempo interminabile.
Avevo forse vent’anni quando ebbro di gloria abbandonai terre e titoli, imbarcandomi nella sacra cerca.
Segni, presagi. Non mancarono certo. Chiari erano gli intenti della Dama, sublime la sua vista.
Di visione in delirio mi condusse alla sacra cappella. Muri scrostati dall’incuria, travi marce, paglia maleodorante.
Effigi di purezza e valore dimenticate da tempo, seppellite da ciarpame, strangolate dalla vegetazione.
Niente di più che un relitto risputato da madre natura.
Eppure chiari erano gli intenti della Dama: custodiscilo, mi ammonì più volte.
Difendilo dalle crudeli creature del bosco. Questa sarà la tua cerca.
Per vent’anni ho custodito questo sacro luogo.
Vent’anni di totale abnegazione, vent’anni di digiuni e preghiere.
Ho lottato contro mostri immondi più e più volte. Il mio corpo non è che un reticolo di cicatrici e muscoli nodosi.
Imprese gloriose a sufficienza per cento ballate ho compiuto. Qualcuno mai lo saprà? Ne dubito.
Non avrò figli, né nipoti che perpetuino la mia casata e allietino i miei ultimi giorni.
Nessun bardo commemorerà mai la mia scomparsa quando i corvi beccheranno il mio cadavere insepolto nel verde.
Vent’anni di automortificazione della carne, di feroce - nichilistica- autoreclusione.
Invano ho aspettato un segno, una visione, un’apparizione della Dama che mi mostrasse il passo successivo della mia gloriosa cerca.
Nient’altro se non il vecchio, beffardo insegnamento: custodisci la cappella, custodiscila con tutto te stesso.
E così ho fatto per oltre vent’anni, mentre lenta la giovinezza sfioriva e maturavano amarezza e triste rimpianto.
E dopo tanti anni non provo altro se non freddo rammarico.
Passi! Scalpiccio nella vegetazione umida.
Rumore di calzature ferrate, andatura da marcia.
A fatica mi sollevo dal pavimento su cui inginocchiato pregavo.
Dardeggio lo sguardo verso l’ingresso, mi affaccio con cautela.
Ancora nulla, devono essere lontani.
Crack! Rumore di legna che si spezza, bestemmie soffocate.
Più vicini di quanto pensassi, dopotutto. Un lieve sorriso mi taglia la faccia.
Finalmente un po’ di sano divertimento.
Mano sulla spada, spalle e schiena rilassate, pronto a estrarre.
Scruto gli esili pioppi, aguzzo lo sguardo alla vana ricerca del nemico.
Il vento mi soccorre, portandomi odori di fumo e sudore rancido, carne marcia e feci.
Bestie, sogghigno, impugnando la spada e voltandomi in direzione del fumo.
Osceni mutanti, bestie degenerate che infestano i boschi incendiando i piccoli centri, minacciando le strade, assalendo viaggiatori e carrozze.
Pochi minuti dopo mi camminano davanti come bambini, sbucando da uno dei tanti sentieri nascosti nel sottobosco.
È un lampo di reciproco riconoscimento, un bagliore di sorpresa e pericolo.
Reagiamo all’unisono, in una mortale sincronia di spade e sangue. Mozzo la mano che vola disperata verso l’ascia in un tentativo di parata, accenno un fendente e con improvviso slancio squarcio la gola della bestia. Il gor che gli è dietro tenta d’impalarmi con una rozza lancia dalla punta in bronzo. Rido quando la punta si scheggia a contatto con l’armatura esplodendo in mille frammenti. Decapito con orribile risata il nemico e con una piroetta schivo il pesante fendente dell’ascia del terzo avversario, un robusto mutante che imbraccia una poderosa ascia a due mani.
Non c‘è tecnica nei miei colpi, né grazia. Solo desiderio di morte e annientamento.
Scivolo sul fango, vengo colpito alla spalla dall’ascia del mostro. L’impatto mi toglie il fiato, mentre lento il sangue comincia ad allargarsi sotto la cotta infranta. La vista è accecata dal sudore e da mille arcobaleni di dolore. Urlo e tento una stoccata alla cieca. La spada penetra nella carne, fuoriesce uccidendo la bestia sul colpo.
Una mano sulla faccia, via il sudore, devo vedere l’ultima bestia, devo parare.
Arghhh... la mazza della bestia mi ferisce al petto, prima ancora che possa alzarmi, ancora inginocchiato nel fango e nel sangue.
Il pettorale attutisce il colpo, un paio di costole tremano all’impatto.
La spada, ancora incastrata nelle costole della bestia, che fare attento prova un fendente al capo, a quella distanza…
digrigno i denti e afferro l’uomobestia, gettandomi sul suo corpo, atterrandolo.
La creatura scalcia, estrae da non so dove un pugnale, lo fermo con il guanto in acciaio, la rozza arma penetra nel palmo, altro sangue, altra cicatrice, lo ignoro stringo ambo le mani attorno al collo del mostro e stringo, stringo, stringo, incurante quanto si dibatte con i suoi zoccoli, le sue urla così maledettamente umane…
Alcuni minuti e la creatura è morta, la gola nera con rivoli di bava rossa, quell'espressione di dolore così umana sul volto mostruoso.
La mia fredda armatura è lorda di sangue, umori, bava e immonde sostanze che colano dalle fenditure impregnando la cotta, i vestiti, la pelle.
Il viso è sporco di sangue nero, appiccicoso, appena sgorgato dai sacchi di sangue che ho appena forato.
E d’improvviso sento calore nel sangue che mi ricopre. Il freddo è andato, scacciato.
Il sangue è caldo e dolce al tocco e mai mi sento così vivo.
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