La
fotografia inganna, perchè ancor più della pittura, si propone di
imitare la realtà, di rappresentarla come forma fedele e
convincente. Un'imitazione, la fotografia vorrebbe fermare in un
istante il reale, “fotografarlo” per l'appunto nella sua
concretezza.
Pretese
ingenue, tranne che per le anime semplici.
La pittura
di un quadro raffigurante una scena realmente esistente, posta sotto
gli occhi del pittore, mettiamo un ritratto, è in realtà
un'operazione chimica. Il pittore dipinge le fattezze dell'uomo/donna
ritratto registrando con l'uso del pennello e dei colori la
disposizione della luce. L'apparato oculo-visivo registra uno certo
spettro di colori, che altro non sono una variazione di luci.
Attraverso questo spettro di colori, questa disposizione della luce
“vediamo” la figura, riconosciamo l'esistenza di un oggetto, o in
questo caso un essere umano. Il ritratto “realistico” registra
queste impressioni della luce ritrasmettendole sulla tela. In tal
senso, scrivevo di operazione chimica. Il quadro è un imitazione, in
questo ristretto ambito dell'arte, di quanto vediamo, dell'operazione
di codifica compiuto dal nostro apparato visivo.
E' tanto
diversa, la fotografia, se ci riflettiamo attentamente?
Invece che
una tela, c'è una pellicola fotosensibile che registra al click del
nostro otturatore una certa disposizione della luce che corrisponde a
quanto definiamo “fotografia”, che altro non è che un'immagine.
Come con il
ritratto, però, la fotografia non è per forza una copia attendibile
della realtà. Un ritratto commissionato da una figura di rilievo può
venire migliorato, un mecenate può chiedere che quel suo brutto naso
venga raddrizzato dalla “magia” del pennello, o che scompaia quel
brufolo sulla guancia ecc ecc La fotografia non offre, contrariamente
a quanto si pensa, maggiore affidabilità. Senza citare photoshop, o
nel '900 le grossolane opere di falsificazione dei vari governi
totalitari, la fotografia è sempre parziale. Lo zoom, l'angolatura
dell'apparecchio e le richieste di mettersi in posa al soggetto –
anche solo il “cheese!” tradizionale – sono inganni della
presunta “affidabilità” della fotografia. Ci si aspetta un certo
risultato dalla macchina fotografica e si chiede alla realtà (il
soggetto ritratto) di aiutarci a raggiungerlo.
Usare la
fotografia come documento storico non è pertanto così ovvio come
potrebbe sembrare. Specie nell'Ottocento e nei primi del Novecento,
la delicatezza delle macchine e il costo della procedura rendevano
l'affare fotografico particolarmente delicato. Non solo nei ritratti
di famiglia, ma anche nelle foto di “vissuto” quotidiano occorre
considerare che erano sempre scene in posa, accuratamente studiate e
richieste. Non c'è in altre parole naturalezza, nella fotografia del
XIX secolo: c'era sempre un fine dichiarato, un'ideologia ben
precisa. Questa può essere tanto banale quanto becera, che si spazi
dalle foto ricordo prima di partire per la guerra, alle foto
politiche o alle prime foto pornografiche. Quelle che spesso sembrano
le foto “naturali” sono spesso ricreate in studio, attraverso
complicati procedimenti.
Va inoltre
osservato che, a differenza dei governi attuali, nell'età vittoriana
si capiva con acume il valore di queste nuove tecnologie e sia il
loro pericolo che potenziale nei confronti delle masse.
Per quanto
riguarda le foto nel Giappone dalla caduta dello Shogunato in poi, in
piena età Meiji, (dal 1868 al 1906) questa considerazione va sempre
tenuta a mente. Dal '60 in poi, il Giappone conosce una spettacolare
modernizzazione, sia tecnologica, che politica, che militare.
Il paese era
considerato per gli standard europei il modello guida per le nazioni
in oriente: nel suo adottare senza compromessi la via europea, era
divenuto tra gli anni '70 e '80 un'imitazione dell'Inghilterra. (1)
Gli ambasciatori e i diplomatici comparavano in modo incessante i due
paesi, Cina e Giappone, come due modelli antitetici: da un lato le
piccole isole coraggiosamente avviate verso il futuro, dall'altro il
gigante immobile e stagnante, troppo ciccione, troppo pigro per
progredire. La situazione non era ovviamente così semplice, a
partire da tanti fattori: il carattere di arcipelago del Giappone, la
sua impenetrabilità ai commerci dell'oppio, una classe di samurai di
gran lunga più flessibile dei funzionari cinesi e sopratutto
l'alternativa tra Shogun e Imperatore, con la possibilità di
alternare i due a seconda di quanto richiesto dal periodo storico. Se
dunque la Cina ha sempre dovuto progredire con cambiamenti
giganteschi, del genere “o tutto, o niente”, i pragmatici samurai
sono sempre riusciti ad alternare il sostegno a una delle due figure,
a seconda di quale potesse meglio guidare la nazione.
Quindi
perché nella fotografia giapponese fino alla guerra russo-giapponese
del 1905 troviamo sempre samurai, geishe, monaci e statue di Buddha?
Dove sono le ferrovie, gli abiti occidentali, i cannoni, le marce
militari, i lampioni a gas, i telegrafi, le vaporiere, gli impianti
tessili?
Dove la
vediamo questa Restaurazione Meiji?
La risposta
sta ovviamente nell'intelligenza dei giapponesi, che da subito
compresero il valore della fotografia. Lo storico David Odo riporta
infatti che “quando la fotografia fu introdotta in Giappone”
(attraverso gli olandesi a Deshima) “fu percepita sia come
tecnologia, che come scienza”.
Le
fotografie che circolavano sul Giappone antico erano un'artificiale
produzione dei giapponesi per vendere ai turisti occidentali. Foto
(quasi) sempre in posa, tranne che per i paesaggi, si richiamavano
agli stereotipi dei turisti francesi e inglesi. Via dunque di geishe
più o meno ignude che bevono il te, di ritrattistiche di giovani
figlie dei locali in kimono, di guerrieri in armatura completa, di
monaci intenti a pregare e così via.
Nonostante
il Giappone di quegli anni – specie nel periodo Rokumeikan –
compisse ogni sforzo per assomigliare all'Occidente, i turisti in
visita dall'Europa preferivano ricercare l'antico, il secolare, la
tradizione dei fiori di ciliegio. Di conseguenza, sia nei resoconti
che nella fotografia, si privilegiava il bucolico e l'incontaminato,
quanto oggi gli inglesi con altrettanto razzismo dichiarano
“pittoresco” quando visitano l'Italia (o meglio, la loro
personale colonia, la Toscana).
Il
romanziere francese Pierre Loti riservò in occasione di un ballo di
corte a Edo, tutti i complimenti agli inviati cinesi, presenti nei
loro abiti caratteristici. I giapponesi, al contrario, per essersi
vestiti all'occidentale, furono criticati spietatamente. Non a caso
il fotografo giapponese “di punta” del periodo era Kusakabe Kimbei, di Yokohama: i suoi album, gli album Kimbei, erano un mercato
esclusivo per gli occidentali che non avevano i soldi o non volevano,
per paura di attacchi xenofobi, viaggiare per il Giappone fuori Edo.
Il passaggio
repentino di una società feudale a un'industrializzazione violenta
sorprende tanto noi, quanto sorprendeva i contemporanei. Dopo aver
vissuto per trent'anni in Giappone, l'orientalista Basil Hall Chamberlain confessava di sentirsi vecchio “di quattro secoli”.
Aveva infatti, quando scriveva nel 1905, assistito a un cambiamento
repentino, decisamente epocale.
Nel saggio
Things Japanese, scrive:
Aver vissuto attraverso la fase di passaggio a un Giappone moderno fa sentire un uomo innaturalmente vecchio; perchè adesso che è nella modernità, può sentire l'aria piena di chiacchiere sulla bicicletta, i bacilli e le “sfere d'influenza”, e nel contempo può ancora ricordarsi nitidamente il Medioevo.
Con humor
inglese, Basil Hall Chamberlain osservava come già nel 1905 il Sol
Levante era argomento di scribacchini, che inondavano il mercato
librario di stereotipi su quel paese. Addirittura si lamenta in
Things Japanese che “NON aver scritto un libro sul Giappone
sta rapidamente diventando un titolo di distinzione”.
Segno dunque
d'una mania jappofila tutt'altro che recente, nonostante i lamenti di
chi dagli anni '70 in poi lamenta l'infatuazione “recente” degli
occidentali per gli anime e il sushi. Un legame con un Sol Levante
stereotipato (e probabilmente idealizzato) è sempre esistita
dall'Ottocento, con i suoi alti e bassi... con al momento
l'attenzione che tende verso il basso.
In generale,
tornando alle fotografie, Julia Friedman per Hyperallergic, riassume
bene quale fosse la situazione:
La scelta del soggetto in una società che era così coscientemente impegnata nella modernizzazione è meglio compresa dalla semplice ragione del successo economico... molte di queste immagini erano prodotte per gli stranieri – studenti sul Grand Tour, o turisti alla ricerca di un souvenir caratteristico. La tecnologia qui funzionava al servizio non dell'autoriflessione, ma dell'industria, che è forse un uso particolarmente moderno dell'immagine (fotografica).
Ichiki
Shiro, Shimazu Nariakira, dagherrotipo, 1857.
La più
antica fotografia umana scattata in Giappone. Una parte di tre prese
in una giornata di bel tempo il 17 settembre 1857. il soggetto è il
Lord Shimazu. La fotografia fu poi scoperta appena nel 1975, a
Kagoshima, negli archivi della famiglia Shimazu.
Usui. Uomo tatuato, 1880.
Il tatuaggio
era diffuso nella società giapponese tra coloro che per lavoro
dovevano esporre il proprio corpo: portatori di palanchino,
servitori, arbitri di case da gioco (l'assenza di vestiti impediva
agli arbitri di barare) e ovviamente tra i gruppi
con un forte senso di identità, come i pompieri e la bassa
malvivenza.
Con la
Restaurazione Meiji, il governo intraprese diverse campagne contro il
tatuaggio, visto come un'usanza tribale e arretrata. Sembra però che
la moda persistesse, per la gioia dei turisti alla ricerca del
Giappone “tradizionale”.
Gaspard
Felix Tournacon (noto come Nadar), Shibata Sadataro, uno dei leader
della missione dello Shogun a Parigi nel 1862.
Volutamente
ho evitato foto di (pseudo)samurai di cui ci sono già troppi post in
rete. In questo caso però l'espressione dell'anziano in foto sembra
avere personalità, cosa rara in questi vecchi album.
Stillfried o Kusakabe.
Fanciulla nella tempesta, 1880.
Prima di
scattare la fotografia, furono inseriti dei cavi nei vestiti per
simulare che fossero agitati dal vento, mentre graffi sul negativo
della foto permisero di simulare l'effetto della pioggia.
Trovo la
foto tra le più belle che vi presento, sia per la posa che per la
ragazza.
E' notevole
come l'intera scena sia totalmente artificiale: un buon esempio di
come la fotografia degli esordi ricreando tutto in studio fosse una
creazione totalmente artificiale.
In questo
caso abbiamo una ragazza in (finto) abito tradizionale, con un
(finto) ombrellino che si difende da una (finta) pioggia, curvata da
un (finto) vento.
Ogawa.
Bellezza giapponese con fiori di ciliegio, 1890.
La foto è
stata con immensa pazienza ricolorata dall'autore. E' notevole come
si sia riusciti a eliminare il colore rossiccio di fondo di molte
delle fotografie del periodo Meiji.
Usui.
Geishe, 1880.
Un articolo
fotografico sul Giappone deve sempre avere delle geishe, è una legge
non scritta...
Farsari,
Kobe, 1890.
La città di
Kobe. Dalle bandiere, sappiamo che quelle sono le ambasciate inglesi
e tedesche. La zona potrebbe sembrare un quartiere europeo, tranne
per i risciò.
Suzuki.
Occidentale, sconosciuto, 1880.
Una
curiosità: la foto di un occidentale in visita scattata però da un
giapponese.
Non è nulla
di che, ma come non mostrarvi l'orgogliosa pipetta all'angolo della
bocca, il cappello stravaccato sulla nuca, il sorriso di magnifica
arroganza (corroborata dalle mani in tasca!).
I men on
the spot.
Stillfried.
Donna reclinata, nudo, 1870.
Kusakabe.
Ragazza che legge un romanzo, 1890.
Fotografo
sconosciuto. Servitrici di una casa del te, 1890. Foto decisamente
in posa!
A Tokyo nel
1887 un giornale riportava indignato la notizia che c'era a Yokohama
un occidentale straniero che andava in giro a pagare le donne locali,
perchè posassero nude nelle sue fotografie, rivendendo poi i suoi
turpi album ai barbari europei. Tuttavia, quando Stillfried se
ne andava allegramente a zonzo nel 1870 nessuno si lamentava troppo
delle sue foto “erotiche”, segno che il pudore nel giro di
vent'anni era progredito rapidamente, sulla scorta
dell'industrializzazione Meiji.
Uchida.
L'imperatore Mutshuhito Meiji, 1873 (da cui il nome del periodo).
Il grande
valore di questa fotografia nasce dal fatto che
a) è la
prima foto dell'imperatore
b) venne
scattata quando aveva appena vent'anni.
La
fotografia fu vietata dal governo, che compì ogni sforzo per
eliminarne le copie in circolazione, sostituendole con delle
litografie. Il valore di un'immagine, di poter vedere fotografato un
“dio” esattamente qual'era, non era stato ignorato dalle
autorità.
Il permesso
di fotografare l'Imperatore fu nuovamente concesso appena nel 1889,
dieci anni dopo.
(1)
Cito da Osterhammel, Storia della Cina Moderna XVIII-XX “Il
Giappone si rivelò l'allievo più accorto e diventò l'Inghilterra
dell'Oriente; fu in cambio premiato negli anni '90 dell'Ottocento,
quando venne rimosso il suo svantaggio sul piano del diritto
internazionale, quando vennero cioè aboliti i trattati ineguali
stipulati in seguito all'apertura del 1853-54”.
Nella nota
bibliografica aggiunge “Per quanto riguarda l'idea contemporanea di
“particolari affinità” tra Gran Bretagna e Giappone, vedi Toshio
Yokoyama. Japan in the Victorian Mind: A study of Stereotyped Images
of a Nation 1850-80”.
Fonti:
How Tourism Shaped Photography in 19th Century Japan, by Danny Lewis,
Smart News (Smithsonian).
Early
Japanese Images, di Terry Bennett.
3 commenti:
La ragazza che legge il romanzo è bellissima.
Articolo molto interessante con belle foto. Conoscevo già un po' l'argomento (sì, per le tette giappo d'epoca, ovvio), ma non avevo mai avuto modo/voglia di parlarne: averlo qui da segnalare agli amici fa comodo! ^^
Mi hai fatto tornare in mente Edoardo Chiossone, il genovese che nel 1888 dipinse (ok, non è una foto) il ritratto ufficiale dell'Imperatore da usare per motivi di stato. Chiossone fu un consulente straniero importante per la modernizzazione del Giappone, introducendo la tecnologia per ottenere la filigrana sulle nuove banconote e aiutando nello sviluppo dei francobolli. Io l'ho scoperto quando cercavo personalità famose, o divenute poi famose, presenti a Genova durante i moti del 1848 (Chiossone era un ragazzino che studiava arte).
https://en.wikipedia.org/wiki/Edoardo_Chiossone
@Alessandro Madeddu
E' una bella composizione... preferisco però le due foto “colorate” all'epoca, specie il ritratto della ragazza coi fiori di ciliegio, nonostante abbia un'espressione un po' ebete ^^
@Duca di Baionette
Grazie per le segnalazioni! Conto di approfondire l'argomento “estremo oriente nell'ottocento” a breve, al momento la mia conoscenza al riguardo è un misto di ricerche su Internet e bibliografia trovata per altri corsi universitari (Storia dell'Espansione Europea e Storia Globale, principalmente).
In giro si trovano anche foto migliori, anche se “restaurate” nei colori in modo eccessivo.
Mai letto prima di Chiossone, sembra un personaggio interessante. Di solito per gli artisti italiani attivi in Oriente si nomina il grande Felice Beato, in realtà di nazionalità piuttosto incerta. Non avevo mai considerato la filigrana delle banconote un'innovazione tecnologica, anche se in effetti...
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