lunedì 28 luglio 2014

Nemo - Le Rose di Berlino: traduzioni dal tedesco e annotazioni di Jess Nevins


Chi mi segue, sa che rispetto Alan Moore.
Non ne sono un fan, piuttosto un ammiratore
Il fan abbraccia con fervore fondamentalista ogni più piccolo prodotto del suo Dio, verso cui prova una prostrazione ai limiti del masochismo. L'ammiratore, invece ne ammira le qualità, senza tuttavia disumanizzare il suo mentore.
Io ammiro l'anarchia di Moore, la sua abilità di forgiare immagini dalle parole, la sua immensa cultura sia alta che bassa, spesso intrecciata senza soluzione di continuità. Ne ammiro perfino l'aspetto, uno dei pochi che tenta un'apparenza e un abbigliamento che si stacchino dalla comune massa di sceneggiatori e disegnatori in maniche di camicia, t-shirt e pantaloncini di bambinetti invecchiati.
Per dirvi, fino a che punto in qualità di ammiratore, si spinge per l'appunto la mia ammirazione: di Alan Moore apprezzo perfino il vestiario! Quell'aura di artista pazzo che tutti ritenevano smarrita nelle nebbie della Londra di fine 800.
Non a caso, è comparso
nel Movimento Chap!

Tuttavia, proprio perché ammiratore e non fan, non mi faccio problemi ad ammettere che alcune sue opere sono peggiori di altre. Nemo: le rose di Berlino è un albo sottotono, rispetto alle sue opere maggiori. Sembra più di guardare il tuo musicista preferito che tira una schitarrata per farti contento, ma senza reale convinzione. Non c'è nemmeno quella rabbia opprimente dell'ultimo capitolo della Lega, “2009”. Nemo: le rose di Berlino rimane comunque un'opera incastonata in una sceneggiatura ferrea, da promuovere e comprare senza riserve; tuttavia la lode giunge a sorpresa per merito dell'artista, Kevin o Neill, che ritrae con pazienza certosina il miglior omaggio fumettistico alla Metropolis di Lang mai disegnato.

Quest'impressione s'è accentuata rileggendo per la terza volta il volume, onde compilare questa lunga lista di Note prese dalla versione inglese di Jess Nevins. I piccoli dettagli che sono emersi erano tutti visivi, nessuno relativo a sorprese nell'ambito dei dialoghi.
Jess Nevins, esperto di cultura pulp e retrofantascienza, è un autentico luminare delle opere di Moore.
Le sue guide, disponibili gratuitamente in inglese, esaminano ogni singola tavola, ogni singola vignetta delle opere di Moore, scandagliando a fondo i riferimenti alla cultura alta e bassa, al pulp, alla letteratura vittoriana, alle curiosità e agli easter egg dispersi tra le righe. Non c'è da vergognarsi che, specie nel caso della trilogia di Nemo, questa gustosa “seconda lettura” sia fondamentale, per realmente apprezzare il lavoro di Moore. I riferimenti sono sempre più astrusi, i personaggi noti a malapena: una guida è indispensabile.

Come se non bastasse, in Nemo: rose di Berlino, un terzo dei dialoghi sono in tedesco.
Non qualche riga, qualche esclamazione: intere vignette, balloon su balloon. Non avendo amici teutonici, ho tradotto dall'inglese di Nevins, con tutti i problemi che ve ne possono derivare. Il mio livello d'inglese è artigianale e in questo caso abbiamo dialoghi dal tedesco tradotti in inglese e infine ritradotti in italiano.
Non so quanto l'operazione abbia funzionato. Ad ogni modo, adesso avete una sorta di traduzione dal tedesco di Nemo: rose di Berlino.

Per sicurezza, per ogni informazione, non solo il tedesco, fate riferimento alla versione originale in lingua inglese di Nevins. La mia è la traduzione di un appassionato, con qualche nota aggiunta; gli errori sicuramente possono incorrere. Ora, aprite il vostro volumetto della Bao a pagina 1, accendetevi la pipa, versatevi un bicchiere di cognac e vediamo d'iniziare...


Pag 1: L'immagine ricorda molto gli scheletri che si abbracciano in Watchmen.

Pag 2 (dal tedesco): "Capitano Nemo: Pirata Scienziato e Macellaio"
Poster di propaganda tedesco, che raffigura Janni Nemo mentre nei panni di una novella Scilla&Carridi affonda una Nave della Croce Rossa. L'appellativo "macellaio" viene inoltre utilizzato dalla stessa Nemo, nei confronti delle persone che tengono prigionieri Hira e Armand. Come osserva Padraig o Mealoid, è tutta una questione di prospettive.

Pag 5 Vignetta 1: La doppia "X X" è il simbolo delle forze Tomaniane di Adenoid Hynkel.
Verrà più volte ripetuto nel corso della storia.

Vignetta 2: "Heil Hynkel."

Come già scritto nella recensione, non c'è un vero e proprio Adolf Hitler nel mondo degli straordinari Gentlemen, esattamente come non ci sono Mussolini e altre importanti figure storiche. In cambio, abbiamo i loro analoghi letterari o filmici. In questo caso, Hitler è stato rimpiazzato da Adenoid Hynkel, l'alter ego di Hitler nel capolavoro Il grande dittatore di Charlie Chaplin (1940). Ambientato nello stato inventato di Tomania, il Grande Dittatore ritrae l'inarrestabile ascesa al potere di Hynkel.

(dal tedesco, Hynkel) "Sì, sì (Ja ja!). "Quando quei negri lassù si saranno stancati di bruciare
le loro mummie, penso che potremmo fare a meno delle formalità. Che cos'ha
da dire sua maestà reale, riguardo il nostro piano?"

Uno dei modi più dispendiosi per difendersi dalla freddissime notti nel deserto era di bruciare vecchie mummie per tenersi al caldo. Tessuti secolari e friabili, imbevuti di antichi oli... un'ottima esca per il fuoco!


venerdì 25 luglio 2014

E il coyote licantropo ululava alla Luna rossa... (Luna Coyote, di Samuel Marolla)


Avevo già incontrato l'ottimo Samuel Marolla leggendo Imago Mortis, che un paio di mesi fa mi colpì per la vividezza rara di descrizioni e personaggi; la prosa sembrava posseduta da un demone inarrestabile, che sebbene a volte dimenticasse per strada virgole e punti, trascinava il lettore in una storia decisamente senza pause. Il protagonista sniffatore simpatizzava subito col lettore e più che l'elemento fantastico spaventava la giungla urbana in via di totale, inarrestabile disfacimento fisico e morale.

Luna Coyote salta invece al Weird Western, posizionandosi saldamente nell'Ottocento della grande frontiera. Conoscerete, che siate appassionati o meno (io non lo sono), l'intero repertorio del Far West: cowboys e indiani, ranger e messicani. Le ferrovie coi cinesi, i saloon con procaci fanciulle puttane, l'epica delle colt sotto il sole di mezzogiorno e degli sceriffi col cappio pronto alla mano. 
Scriveva Manfredi in un romanzo (bruttino, come tutti i suoi) che gli italiani conoscono meglio l'America di Tex Willer che la propria patria. E' senza dubbio vero, sebbene non riesca a vederci nulla di negativo in quest'amore per la natura e il coraggio intrepido.

Tuttavia... Prendete tutti questi cliché e topos e nel caso di Luna Coyote gettateli via. 
Non c'è nessuno di questi stereotipi nell'opera di Marolla, che sembra invece privilegiare il punto di vista di quanti normalmente nascosti e oppressi: nel primo paragrafo il pov è quello dell'antagonista che è un razzista violento, qual'erano molti più cowboys di quanto i film lascino ammettere. 
Nel secondo caso, il pov è di un negro fattorino – un personaggio a dir poco inconsueto, se non come spalla comica del protagonista.

Oltre ai bordelli vi erano i magazzini dei cinesi.
Quelli se ne stavano fuori, su panche di legno, con le loro tuniche nere, i cappelli di paglia a forma di piatto rovesciato, e lunghi bastoni sui quali si appoggiavano, e con i quali probabilmente si rompevano le ossa a vicenda quando avevano da ridire fra loro. Attendevano i clienti, cioè i bianchi sui carri, che venivano a contrattare la loro merce, a comprarla all'ingrosso, a buoni prezzi, e portarla a tonnellate su a Los Angeles; alcuni compratori venivano addirittura da San Francisco. I cinesi erano i padroni di tutto: i sigari sopratutto erano la loro specialità, ma non solo; anche calzature, pannilani, conserve di frutta. E se volevi costruire qualcosa, su al nord, dovevi rivolgerti a loro.
L'edilizia era esclusivo appannaggio dei figli del drago, e dovevi venire qui, nelle loro comunità costiere, a parlare coi loro pezzi da novanta, i loro anziani, per mettere su una squadra. Quelle vecchie mummie rinsecchite ti trovavano cento manovali esperti in un'ora, te li spedivano a calci su fino a Sacramento, se avevi urgenza, li facevano lavorare giorno e notte finché non gli usciva il sangue dal culo, e il padiglione era bello che pronto. Le scuole, gli ospedali, i tribunali, persino le missioni cattoliche: le costruivano i cinesi, e se volevi trattare con loro, da questa parte della California, beh, dovevi venire qui, o a Monterey, o sulla Punta dei Pini.

mercoledì 23 luglio 2014

Nemo: le rose di Berlino


Inizialmente Janni Drakkar, dalla sua prima comparsa nel volume "1910", non mi piaceva per niente. 
Molto cliché – la fuga dal padre, l'incontro col mondo selvaggio e brutale della città, la vendetta finale – e molto convenzionale. Era un elemento d'attrito interessante che Nemo avesse desiderato un figlio maschio, l'avesse anzi dato per scontato e avesse poi ricevuto un'unica figlia femmina
Ma la trilogia spin off della Lega, con Janni come protagonista, sarebbe stata ambientata un bel po' di anni dopo la morte di Nemo, ormai anziano. Dunque, non era su Nemo, pardon, Janni, che puntavo le carte, ma sull'ambientazione. E invece.

Se il primo volume Cuore di ghiaccio brillava proprio per una protagonista determinata, ma ancora giovane, quasi "ingenua", questo secondo volume mostra una Nemo ormai irrigidita, qualche anno prima che si avvii alla mezz'età. E' forte, quasi "virile" nella sua determinazione ad assumere il mantello del padre ("è solo questo mantello... E' troppo grande e pesante, alle volte" cit. Nemo: cuore di ghiaccio) ma quest'implacabile tenacia a perseguire i propri obiettivi s'esplica in un personaggio molto chiuso in sé stesso.
Nel corso di questa seconda avventura gli sprazzi di emotività e sentimento vengono tutti relegati al vice (e amante) in comando, Broad Arrow Jack. E' Jack a commuoversi per la disgrazia che colpisce a inizio volume, è Jack che commenta disgustato gli orrori del regime di Hynkel, è Jack che sceglie di reagire con rabbia e furore agli antagonisti, mai prima d'ora così crudeli.
Il peso della responsabilità di Lincoln Island, del Nautilus e dei delicati rapporti geopolitici in cui sono invischiati porta Janni a una freddezza che cela un profondo dolore. 
Personaggio, a differenza della Mina Murray, meno generalista e dunque più difficile d'approcciare.

Janni, in questo secondo volumetto, è caduta in una trappola.
La figlia, Hira, s'è sposata con Armand Robur, figlio dell'omonimo Robur costruttore della micidiale aeronave "Il Terrore". Essendo Robur un bravo francese patriottico, Janni ha scelto dunque di schierarsi dalla parte di francesi e inglesi contro la potenza di Tomania, guidata dal fanatico Adenoid Hynkel
Moore nei volumi della Lega gioca con letteratura alta e bassa mescolandola agli eventi storici. Conseguentemente, nel mondo di Nemo non esiste Hitler, ma esiste Hynkel, il dittatoruncolo di Chaplin del film "Il Grande dittatore". Allo stesso modo ci si riferisce a un certo Benzino Napaloni, alter ego del nostro già buffonesco Benito Mussolini. Hynkel regna sulla Tomania, che affianca la Germania imperiale, che a sua volta ha accettato la dittatura di Hynkel.
Inoltre, a complicare le cose, l'inventore delle macchine di “Metropolis”, Rotwang, si è qui dedicato in prima persona alle ristrutturazioni architettoniche per cui era famoso il film; di conseguenza troviamo sia la bella Maria-Robot, lo strumento di "propaganda" donna-macchina, sia i ritmi e gli edifici nello stile Bauhaus.
 E ancora; dovendo citare la cinematografia dell'avanguardia espressionista tedesca, non poteva mancare il dottor Caligari e il criminale Mabuse.
Il primo è tra i prediletti di Hynkel e comanda uno spietato commando di Narco-soldati. Implacabili macchine di carne, mosse dalla potenza del sonno ipnotico saranno un osso duro per gli scontri a fuoco di Nemo. Il secondo, invece nel nome del crimine aiuterà a sorpresa Janni, spezzando così lo stereotipo dei tedeschi tutti-sempre-cattivi.
Con una mossa a sorpresa, Hynkel annuncia d'aver abbattuto il terrore di Robur e aver catturato la coppia di sposini; la lotta contro la pirateria di Janni è infatti voluta dall'alleata africana di Hynkel, l'immortale Ayesha già presente in Cuore di ghiaccio. Un'infuriata Nemo corre a salvare la figlia dalle grinfie dei nazisti... Oops, dei Tomaniani!

Le inquietantissime truppe di Narco-commando

Per certi versi è difficile distinguere oggettivamente se questo volume sia migliore del primo, o costituisca un passo indietro. Le mie preferenze storiche vanno tutte all'età tardo vittoriana, o al primo Novecento. Conseguentemente, Nemo: cuore di ghiaccio per me non può che essere superiore a questo pur profumatissimo Rose di Berlino. C'è inoltre d'osservare come più ci si avvicini all'età contemporanea, più scompaiono i riferimenti letterari e pulp, a segnalare la progressiva discesa per la cuna tipica della cultura di massa.

D'altronde, sul piano della trama quest'episodio fila molto più veloce e divertente del primo.
Siamo nel campo della classica avventura spara-spara contro i cattivi Nazi.
 I dialoghi sono ridotti all'osso, i personaggi agiscono, senza molto discutere. Molte delle linee di dialogo tra Nemo e Jack sono battute, domande brevi e frasi interrotte. Visivamente Kevin O' Neill regala alcuni scorci mozzafiato. Non è da tutti coniugare Metropolis con la Gestapo, o reinventare i toni chiaroscurali di questa Berlino mai così grigia, mai così mefitica. E' come se Alan Moore avesse deposto la penna e consegnato completa carta bianca al suo disegnatore di fiducia. Considerando che vi sono molti più appassionati della Seconda Guerra Mondiale che degli anni 20', l'avventura è molto più abbordabile rispetto a Cuore di ghiaccio.

Io la odio questa gente! (cit)

Alcuni personaggi poi spiccano particolarmente.
Mabuse, Caligari e Hynkel rimangono sullo sfondo, ma Maria-Robot è uno splendido Villain.
Ayesha, invece è il prototipo della stronza arrogante, ma svolge il suo ruolo con efficacia, con tanto di epico duello finale.
Ho già inoltre scritto di Janni, che trovo un personaggio femminile di Moore più riuscito di altri; o se non altro meno maltrattato. In effetti tutta l'avventura è al (quasi) completo femminile; tra Maria-Robot, Ayesha, Hira e Janni Drakkar tutti i personaggi che mettono in moto il plot sono femminili.
Questo lascia tanto più perplessi, quando a un certo punto nella storia, c'è un gratuito ingresso in un “Bordello di stato Tomaniano” in un continuo display di seni e ghiandole mammarie. E' difficile dire, se sia fan service dovuto a Moore che invecchia o un riferimento al postribolo che visita Maria-Robot in Metropolis. Propendo per la seconda ipotesi; c'è inoltre da dire che lo stile graffiante di Kevin O' Neill riesce a rendere aguzze e rettangolari anche le tette, per cui l'elemento “sensuale” risulta praticamente assente.
Gustosissimo infine l'inserto “finto-giornalistico” finale, con le consuete strizzate d'occhio, dall'olezzo della “gigantesca scimmia in decomposizione” (King Kong!) al resoconto di questa seconda guerra mondiale alternativa, con la popolazione di “pacifici troll della Norvegia” perseguitati dai Tomaniani, o con l'abbattimento della “Dinastia Ubu” polacca, i fabbricanti “di candele verdi”.

Promosso, dunque? Sì, sì, ma con riserva. C'è meno carne al fuoco, ma questo per molti costituirà un punto a vantaggio. D'altronde, a ripensare e palpeggiare certe splendide scenografie, certe innovazioni, per non citare la Maria-Robot... Ci si sorprende a consegnare l'ennesima Lode. 

lunedì 21 luglio 2014

Giappone vintage degli anni Ottanta


Non riesco a studiare senz'avere sotto mano qualcosa di radicalmente diverso dall'argomento dell'esame. 
Se studio filosofia, nelle pause preferisco i libri di storia; se studio storia, i libri di filosofia, se studio come nell'ultima sessione contemporaneamente storia, filosofia, psicologia e informatica... Well, la questione diventa alquanto intricata. L'ho risolta pescando dalla libreria di casa testi di architettura – ch'è l'argomento più astruso dai campi che di solito frequento. L'arredamento, la costruzione di condomini, nuclei abitativi e topologia: argomenti che suonavano completamente sconosciuti ai miei occhi e pertanto ottimi per distogliere la mente dall'esame, senza precipitarla in qualcosa che mi appassioni.

In questo caso poco c'è mancato che accantonassi davvero lo studio, perché i libri che avevo scelto erano d'architettura giapponese, e particolare ancor più delizioso incorporavano una gigantesca quantità di aneddoti e fotografie di vita quotidiana, che con l'architettura avevano poco a che fare.
Il mio fido pard all'università, come si riferisce Tex Willer a Kit Karson, accarezza da anni di viaggiare in Giappone al termine della laurea e siamo entrambi d'accordo che sarebbe nelle nostre avventurose intenzioni un viaggio radicalmente diverso dalla moda attuale, che sceglie solo Tokyo e trasforma il viaggio in un itinerario di shopping in cui il turista svolge il ruolo passivo di consumatore/accumulatore, che vede nel Giappone una landa incantata, da cui trarre inesausto bottino di cui godere cogli amici al sospirato rientro nello scarpone terracqueo. Un idrante di piccoli consumatori affamati di beni di lusso innaffia così Tokyo, riversandosi a far compere nell'unico quartiere che sembrano conoscere, cioè Akihabara. Ognuno sceglie il viaggio che vuole, ma dopo il turismo sessuale e le comitive organizzate, il turismo-shopping è la terza categoria più deprimente della classifica.

Non riesco nemmeno a trovare
la copertina in italiano su Google!
Il testo in questione era “Lo stile giapponese, di Suzanne Slesin, Stafford Cliff & Daniel Rozensztroch”. 
Riporto la sinossi sul retro del volume:
“In quasi 800 straordinarie fotografie a colori, la bellezza e lo spirito del Giappone moderno: accanto alle vecchie fattorie col tetto di paglia, alle tranquille case di campagna e ai giardini nei pressi di Kyoto, le moderne, sorprendenti abitazioni di Tokyo.”

Testo di lusso, dalla copertina spessa e rigida, protetta da una sovraccoperta plastificata.

Le pagine sono ampie, spaziose e adatte ad accogliere le foto a grandezza pagina intera.
Dopo un'introduzione comprendente diversi saggi di architettura e dopo aver illustrato le difficoltà dell'impresa legate alla differenza culturale, l'opera in pratica è un catalogo di fotografie, che compara la vecchia architettura giapponese tradizionale alle sperimentazioni e contaminazioni odierne, specie se legate all'uso del cemento e dei nuovi materiali dal 60' in poi.

La prima osservazione che sovviene è quanto sia progredita la qualità dell'immagine negli anni.
Il testo è del 1988, dunque di soli trent'anni fa: eppure quanta differenza in colori e definizione!
Le immagini sono spesso sgranate, imprecise. Se vengono fotografati esseri umani, questi appaiono nella grandezza della pagina sbiaditi, dai contorni della faccia sfumati. Occhi, naso e bocca si distinguono, ma l'ovale del volto sembra deperire per mancanza di dettagli. Migliora se si rimpicciolisce l'immagine e ci si pone ad una distanza ragionevole, oltre i consueti trenta centimetri. Allora, come in certi quadri delle avanguardie del primo Novecento, la foto migliora.
Va meglio con le nature morte e gli arredamenti senza abitanti; la freddezza della solitudine rafforza la qualità dell'immagine. E occorre comunque ricordarsi che stiamo trattando un testo di lusso, destinato esplicitamente a fare dell'elemento visivo il nucleo della lettura! 
A fronte di una così veloce decadenza dell'immagine, mi chiedo quale sarà il futuro della foto.
Man mano che si muove a migliorare l'immagine, questa acquista sempre maggiore nettezza e definizione. L'occhio palpita sempre più veloce, è portato mai quanto prima a passare da immagine in immagine in pochi secondi, pretendendo al contempo la massima qualità possibile. 
E' sempre un “più”. Più pixel, più dettaglio, più reale. Ma socchiudendo gli occhi di fronte all'ultima grafica dell'ultimo videogioco mi viene spesso da chiedere quale sia più ricco di definizione, nettezza, dettagli; se il mondo sullo schermo o quello fuori. E' un inganno potente, questo della foto, di voler imitare a tutti i costi la realtà che la circonda. Tra un decennio, i Blu-ray sembreranno video in bianco e nero degli anni Venti, per dare un'idea dell'evoluzione nella qualità. Un pensiero piuttosto inquietante...

La seconda osservazione riguarda il tipo di società che di tanto in tanto trapela da questo implacabile studio di appartamenti e oggetti. Una società ch'era quella degli anni Ottanta, in vertiginosa crescita per una bolla speculativa che nessuno si aspettava scoppiasse, dunque imperniata su un benessere che gocciola dalle foto, che sebbene prese per strada non mostrano l'accattonaggio e i barboni a cui siamo ormai abituati. 
Una società costretta inoltre a passare attraverso la formina della cultura americana, sagomata a colpi di accetta. Dal sequestro e distruzione delle oltre 5 milioni di spade nel 1946 (unito al divieto di fabbricarne altre!) alla continua esasperata americanizzazione di ogni settore culturale. Nonostante ciò, uno dei saggisti del testo lamenta l'attaccamento alle tradizioni ancora molto vivo. E' curioso che nell'altro documento sul Giappone in mio possesso, una guida turistica del 1974, venga rimarcata un'uguale critica; si loda l'economia in decollo, ma non si comprende ancora questo “fanatico attaccamento”.
D'altronde, dagli anni di Fukuyama e dal termine della storia col suo pinnacolo negli Stati Uniti (sic) non ci si può aspettare nulla di diverso. Semplicemente non si comprende che qualcuno vorrebbe avere gusti e interessi diversi, da quelli atlantico-occidentali.



Terza osservazione, pur con le rimostranze prima espresse, alcune testimonianze scritte degli americani in visita sono notevoli, per capacità di carpe diem e sublime architettonico.
Ne riporto forse la più incisiva, per chiudere in bellezza l'articolo:

Abituato com'ero alle stanze piene di mobili, sia in Occidente sia nel decadente splendore delle vecchie dimore di Pechino dove avevo vissuto i precedenti quattro anni, questa stanza mi apparve come qualcosa di totalmente diverso. Sapevo, naturalmente, dalle fotografie come era una stanza giapponese. Ciò che non avevo recepito nelle fotografie era la perfezione dei particolari, la levigatezza del legno lavorato, lo splendore dello sbalzo laccato del tokonoma, o il sottile gioco delle venature del legno nelle assicelle del soffitto.

Fu allora che guardai l'angolo vicino al tokonoma, il punto in cui il pavimento e due muri si incontravano. Mille volte mi era capitato nella mia vita di osservare degli angoli, senza trovarci alcunché d'interessante, giustamente, e non ero quindi preparato allo shock che mi produceva in quel momento la perfezione di quello che stavo vedendo.

Mi alzai per guardare più da vicino e rimasi lì stupefatto a fissare. Era la congiunzione essenziale di tre piani ad angolo retto l'uno con l'altro, il piano del pavimento di legno pulito a specchio, e le due pareti di argilla ben levigata e dipinta in un marrone tendente al verde (anni dopo avrei scoperto che in Giappone le pareti più belle venivano ottenute con il limo che si trova sul fondo delle risaie coltivate da molto tempo). Quell'angolo, fatto alla perfezione, era anche perfettamente pulito.
Nel punto in cui i tre piani si intersecavano, non una particella di qualsiasi cosa, neppure di polvere, guastava la precisione a filo di coltello del lavoro di falegnameria.

Quel semplice angolo, per leggi naturali né più grande né più piccolo né geometricamente diverso in alcun modo da qualsiasi angolo del mondo, mi aveva mostrato tuttavia che esisteva in Giappone, malgrado la guerra e la sconfitta, una viva tradizione della qualità che non aveva pari sulla Terra.
In quel momento ebbi la certezza che un giorno sarei ritornato.
(David Kidd, emerito direttore della Scuola d'Arte Giapponese Tradizionale di Oomoto, collezionista, scrittore, educatore).

venerdì 18 luglio 2014

La foresta dei Mitago, di Robert Holdstock



Alcune storie hanno la magica capacità di funzionare indipendentemente dal loro recipiente, di variare forma e stile ma restare ugualmente meravigliose. 
La foresta dei Mitago tecnicamente è un fantasy, scritto dal buon Robert Holdstock negli anni Ottanta con lo stile che ci aspetterebbe da uno scrittore di vent'anni fa e dallo stile caratteristico dei libri per l'adolescenza. Mai stupido, ma ciò non di meno piuttosto semplice, lineare. Siamo in prima persona nella testa del protagonista, abbondano le spiegazioni a ogni voltar di pagina e di tanto in tanto quando l'azione si fa concitata, la telecamera scende a inquadrare il furore del combattimento.

Tuttavia, non sarebbe difficile immaginare un'uguale storia scritta a fine settecento da un illuminista francese, o ancor più vergata da un simil-Dickens nel periodo tardovittoriano. Esempi abbozzati per spiegare quanto l'avventura di Holdstock funzionerebbe pur variando elementi e stile, a conferma della bontà della storia. Dopotutto, questo è quanto dovrebbe caratterizzare ogni classico che si rispetti e in misura maggiore ogni Fantasy: una storia che resti avvincente nonostante il passare delle generazioni. Non sono mai le opere letterarie dallo stile aulico e dai sottili messaggi politici a sopravvivere, quanto piuttosto quelle dalla storia migliore. Nel darwinismo letterario, lo Hobbit continua a essere letto proprio perché allegramente slegato da ogni metafora legata al 1937 in cui veniva scritto; e ancor più perché scritto per intrattenere prima di tutto e solo secondariamente per educare.

Cos'è il Mitago?
Citando il diario del padre del giovane protagonista, i Mitago sono entità reali che nascono per azione della magia del bosco e che sono tanto più solide quanto più affondano negli archetipi della cultura del protagonista. La forza primigenia del bosco attinge dalla mente del visitatore modelli culturali e antichi miti, che col tempo se si risiede a sufficienza nel bosco generano queste entità in carne e ossa, i Mitago. 
E' un po' come se Jung avesse deciso di darsi al fantasy!

Chiamo questi periodi particolari interfacce culturali; formano delle zone, limitate nello spazio dai confini del paese, naturalmente, ma limitate anche nel tempo; periodi di alcuni anni, di circa un decennio, in cui le due culture (quella dell'invaso e dell'invasore) si trovano in una fase estremamente angosciosa. I mitago nascono dalla forza dell'odio, dalla paura, e prendono forma nelle aree boscose, da cui possono uscire (come la forma Artù, o Artorius, l'individuo possente dalle doti carismatiche di capo) o in cui possono rimanere, costituendo una forma nascosta di speranza (la forma Robin Hood, Hereward forse, e naturalmente la forma-eroe che io chiamo Twigling, spina nel fianco per i romani in moltissime parti del paese)
(…)
- Secondo il vecchio, tutte le forme di vita sono circondate da un'aura di energia; l'aura umana si manifesta come debole bagliore in presenza di particolari condizioni di luce. In questi boschi antichi, boschi primitivi delle origini, l'aura combinata forma qualcosa di molto più potente, una specie di campo creativo che può interagire col nostro inconscio. Ed è nell'inconscio che si trova quello che lui chiama pre-mitago... Il termine deriva da mito e imago, l'immagine della forma idealizzata di una creatura mitica. L'immagine si materializza in un ambiente naturale, acquista consistenza, sostanza... carne, sangue, indumenti, e come hai visto armi. La forma del mito idealizzato, la figura eroica, muta coi cambiamenti culturali, assumendo l'identità e la tecnologia del tempo –


Stephen è figlio di un bizzarro professore sempre assorto nei suoi studi e vive assieme al fratello Christian a Oak Lodge, una casa di campagna nelle vicinanze di un boschetto che si dice assai antico. Alla chiamata di leva, nel 1944 Stephen è chiamato a combattere in Francia e ritorna in patria solo dopo una lunga convalescenza, dovuta a una ferita di guerra. Sia la madre, che qualche anno dopo il padre, sono deceduti dopo un periodo di follia e meditazione ai margini del boschetto; nel frattempo Christian s'è legato a una ragazza del luogo, una certa Guiwenneth, e leggendo il diario del padre ha scelto di continuare gli esperimenti. Tornato a Oak Lodge, Stephen vi trova suo fratello in uno stato di abbrutimento ai limiti della follia, e scopre che Guiwenneth è una Mitago, un'incarnazione del bosco. La ragazza era la personificazione della ribellione dei celti contro l'oppressore romano, una sorta di Boudicca. Un altro Mitago l'ha uccisa, ma Christian afferma che può farla risuscitare, ritornando nel cuore del bosco e risvegliando il suo archetipo...

Già da questo maldestro tentativi di sinossi dovreste comprendere quanto sia complessa l'opera di Holdstock. Tutto ruota attorno ai Mitago, questi archetipi redivivi, che pensano e agiscono (e amano!) come reali persone. Man mano che Steve giunge a conoscere i poteri del bosco, la situazione s'affolla e complica, in un intreccio di mitologie, ricordi e frammenti di diario. Compaiono gli archetipi più famosi, come re Artù o Robin Hood. Ma Holdstock sembra avere un debole per le popolazioni più antiche, dai villaggi del Neolitico, ai Celti, ai sassoni invasori del V secolo. A loro volta, questi Mitago, queste “mitologie viventi” raccontano altri miti e altre storie, che Holdstock abilmente mantiene astruse e difficili, comunicando efficacissimamente la lontananza dell'uomo moderno dai suoi antenati primordiali. 

L'oggetto più bello era un piccolo cavallo d'avorio, molto stilizzato, col corpo stranamente grasso e le gambe sottili ma scolpite splendidamente. Da un foro nel collo si capiva che si trattava di un ciondolo. Sul cavallo era incisa l'immagine inequivocabile di due esseri umani che copulavano.
“Il Tempio del Cavallo è ancora deserto; ormai, definitivamente, credo. Lo sciamano è tornato nelle terre centrali, oltre il grande fuoco di cui ha parlato. Mi ha lasciato un dono. Il fuoco mi rende perplesso. Perché lui aveva tanta paura del fuoco? Cosa c'è oltre il fuoco?”


I Mitago che più svolgono un ruolo nel plot della storia sono tuttavia due: Guiwenneth e Urscumug.

Guiwenneth, come detto, è il Mitago della resistenza celtica. 
Creata in origine dalla mente del padre di Steve, viene da questi immaginata come l'archetipo della fanciulla bella e indifesa, la personificazione del sole e della primavera.
Dopo la sua uccisione per mano di meno pacifici Mitago, la seconda Guiwenneth, creata dalla mente del figlio, Christian, accentua gli aspetti guerrieri del personaggio. 
Più Boudicca che boutique, si direbbe. Il nuovo Mitago, che dalla nascita dal ventre del bosco acquista un suo carattere e una sua personalità, s'innamora di Christian, che decide di sposarla. Tuttavia, ancora una volta un Mitago ostile la uccide, conducendo il fratello del protagonista alla follia. Nonostante le proteste di Stephen, Christian s'addentra nel boschetto, alla ricerca di un modo per ritrovare l'amata.
E si giunge alla terza incarnazione, la Guiwenneth di Stephen, che congiunge i due aspetti opposti, guerra e amore. Ripetendo un copione già visto, la Guiwenneth compare presso Oak Lodge, acquista una sua indipendenza e fatalmente innamora Steve.

La difficoltà di giudicare questo personaggio è data dall'essere incarnazione dei desideri e dell'archetipo culturale dei diversi creatori. Così la prima Guiwenneth, che conosciamo dal solo diario del padre, è una ragazza indifesa perché la mente del suo creatore è ancora tardovittoriana e di conseguenza per un gentleman la donna non può che essere oggetto di desiderio da salvare.
Nel caso di Stephen, la terza Guiwenneth che vediamo agire e parlare sotto i nostri occhi è di gran lunga più attiva e indipendente, quasi selvaggia. Progressivamente stringerà un forte rapporto col protagonista, fino al ritorno di Christian che la scambierà per la sua Guiwenneth, resuscitata.
Un bel pasticcio...

E' chiaro che ogni critica verso il modo con cui Holdstock tratta Guiwenneth sarebbe tranquillamente giustificabile affermando che eventuali difetti o stupidità sono attribuibili a Stephen. 
Tuttavia, verso metà del libro c'è un paragrafo che stona con quanto detto. La Guiwenneth di Steve, fino ad allora descritta come una donna intelligente, s'innamora e progressivamente viene descritta sempre più stupida e sciocca. Holdstock addirittura la fa retrocedere dal cacciare cinghiali, all'occuparsi della cucina di casa! Com'è possibile che un'incarnazione della cultura celtica trovi entusiasmante il ruolo di casalinga
E' una nota stonata di piccolo conto, ma che mi ha dato parecchio fastidio. Abbiamo un personaggio indubbiamente “forte” (e anche simpatico, cosa piuttosto rara) che viene lobotomizzato per “l'amore”. Da lì in poi, Guiwenneth verrà rapita da Christian e diventerà la classica fanciulla da salvare, un meccanismo narrativo senza più ruolo nella storia. Diventa solo una ricompensa, il loot per la quest di Steve. 
In altre parole, solo un obiettivo da perseguire.


L'Urscumug è il Mitago più terrorizzante. E' l'archetipo più antico di tutti, l'Estraneo. Non lo straniero amichevole a cui dare asilo o con cui commerciare, ma l'invasore, possessore di una tecnologia (o di una cultura: stessa cosa in fondo) che minaccia la comunità. Già presente nel Neolitico, l'Estraneo è inoltre l'unica vera creazione del padre di Stephen; è un essere brutale, mostruoso, nato non dalla speranza, come Guiwenneth, ma dall'odio, dalla frustrazione immensa di un vecchio che non vuole morire. Più in generale nel romanzo è il padre cattivo, che minaccia e soffoca sia Stephen che Christian. Mentre leggevo, lo immaginavo come il Cerv(uomo) prutrefatto di molti Horror nella foresta. Un buon esempio di cos'intendo è il mostro del racconto Una facile preda, di Malpertuis.

Il romanzo di Holdstock, anche soprassedendo sulla povera Guiwenneth, è tutt'altro che perfetto.
Nella prima metà, la vicenda si dipana lentamente, immersa nelle meditazioni del protagonista. L'elemento fantastico è ridotto al minimo, inframezzato dalle pagine del diario del padre.
Noi scrittori fantasy inoltre siamo tutti un po' luddisti e Holdstock non fa certo eccezione.
Steve nonostante sia circondato di selvaggi Mitago dell'età della pietra non usa armi da fuoco.

(…) presi la massiccia lancia con la punta di selce che avevo costruito durante le settimane di dicembre. Era uno strumento di difesa rudimentale e primitivo, però dava un senso di sicurezza soddisfacente, più di qualsiasi arma da fuoco. Che altro dovevo usare contro entità primitive, se non uno strumento primitivo!

Stronzate! Dovessi affrontare creature fantastiche come minimo mi attrezzerei con un fucile per la lunga distanza e una mitraglietta per la breve. Ma non sarebbe risultato altrettanto romantico, suppongo...

Se riuscite a stringere i denti e superare i paragrafi dell'idillio con Guiwenneth, il viaggio di Stephen ripaga ampiamente le fatiche. 
Più ci si avvicina al centro del bosco fatato, più il senso di Wonder s'accentua, anzi straripa senz'argini. I Mitago non sono più semplici persone, diventano interi villaggi, addirittura edifici d'altre epoche. 
Torri del periodo dell'incastellamento, ville romane abbandonato nel V secolo, residenze in stile Tudor... 
Mitologie e popoli si susseguono e sovrappongono l'uno sull'altro, in una confusione di culture straordinaria. Significativamente, Holdstock lascia da parte le religioni del libro. 
Sarebbe stato interessante inserire nella storia un eremita santone in meditazione, o una chiesetta “miracolata” fonte di pellegrinaggio (potente archetipo!). Tuttavia, l'immaginazione di Holdstock è risolutamente pagana. Nonostante i tentativi di amalgama, infatti, il monoteismo male si concilia con gli dell'antichità e con il tipo di mitologie panteiste che ricerca Holdstock. Questa non è una critica a nessuna delle due parti, s'intenda! E' chiaro però che se credi che il bosco abbia una sua “magia” non puoi al contempo ospitarvi dentro una religione che perseguita la magia, è tipica delle città e nasce in opposizione alla natura.

Devo ammettere, che più ci ripenso, più mi rendo conto di quanto mi sarebbe piaciuto un romanzo del genere da bambino. Nonostante i difetti, è da tanto che non leggevo un fantasy così originale sul piano delle idee e della documentazione. Holdstock aveva tutte le carte in regola per diventare un classico; ora invece gli scaffali che dovrebbero ospitarlo vomitano spazzatura firmata Christopher Paolini e Stephenie Meyer. 
Nulla di nuovo sul fronte occidentale del Fantasy!

martedì 15 luglio 2014

La rigatteria Hipster: un fenomeno bizzarro


Le rigatterie sono raramente bei posti.
Si passi dallo straccivendolo al libraio, dal mobilificio al venditore di quadri, il rigattiere soffre d'una cronica mancanza di spazio, di acquirenti, di un continuo, estenuante surplus di materiale da sbolognare. 
Per quanto bassi siano i prezzi, per quanto umilianti siano le condizioni di acquisto, c'è sempre gente disposta a vendere quanto altri getterebbero nella spazzatura.
Ad esempio, in media i libri che dal rigattiere vendono a un euro vengono acquisiti in blocco per prezzi irrisori da grandi magazzini; o sono acquistati per la media di trenta centesimi ciascuno. Trenta romanzi fanno appena appena nove euro, per il rigattiere! Non è difficile capire come possano risolversi gli affari. E ne consegue – è piuttosto ovvio – che una rigatteria fiorente compri più di quanto possa vendere. La merce comincia ad accumularsi, dapprima sulle scansie, poi sui tavoli, infine accatastata in grandi pile.
L'analogia con la discarica è offensiva, ma fin troppo calzante.

In tutto questo, dovete inserire il Fenomeno Hipster
L'avete presente; barbe lunghe ma curatissime, baffetti alla Dalì, camicie a quadrettoni vendute nei discount acquistate a prezzi folli, musica tanto indie che neppure gli Indios la conoscono ecc ecc Tante piccole strane manie concentrate in una moda. Non c'è nulla da condannare: voler fare gli eccentrici, specie di questo tempo, è un fenomeno affatto strano, considerando l'appiattimento generale. Voler spiccare nella massa è normale; è volerlo fare in modo tanto spocchioso che scatena la condanna. Una volta li chiamavano “snob”.

Riuscite a immaginare un hipster in Rigatteria? Io no.
Gli Hipster adorano i luoghi asettici, puliti, immacolati. Luoghi senza bordi, senz'angoli taglienti, come la tecnologia Apple che tanto amano (o è Linux? Anche l'Hipsterismo ha tanti livelli!).
La rigatteria è l'esatto contrario. E' buia, maltenuta, sporca, con più ciarpame che oggetti preziosi.
Però... Dovete ammetterlo, la rigatteria, che sia una bancarella dell'usato o una rivendita di cianfrusaglie, sembra adattarsi bene all'immagine dell'Hipster. Cioè, ci sono innanzitutto 
1. Cianfrusaglie e ammennicoli “strani” o “vecchi” che l'Hipster amata tanto mischiare indiscriminatamente
2. Vestiti di secoli fa di gente morta per denutrizione o sifilide o qualche orribile malattia. Ottimi per conferire quell'aspetto alla “spaventapasseri” che gli Hipster amano tanto 
3. Libri degli anni Sessanta, un casino di roba dal secondo dopoguerra davvero. Interminabili testi sovietici del genere “Il problema agrario secondo Lenin”, libri del sessantotto, romanzi e riviste dagli anni ottanta/novanta. Sopratutto: libri di carta! Perché a che diamine serve leggere se nessuno ti guarda farlo? La copertina makes the book! (sic)

Eppure... la rigatteria è sporca, disordinata... Molto poco chic, poco “in”!
Qualche abile piccolo imprenditore fai-da-te dev'essersi accorto di questa nicchia di mercato colpevolmente poco sfruttata, e ha pensato bene di riempirla.
Così, qualche mese fa, ho svoltato l'angolo e ho sbattuto il naso sulla vetrina della prima rigatteria Hipster. Per un attimo ho pensato fosse un negozio per bambini, perché aveva le pareti ricoperte di quel compensato ligneo che trovate nei negozi di abbigliamento per bambini, o nelle giocatollerie artigianali. Ma i bambini di solito non acquistano vecchie siringhe di metà novecento o macchine da scrivere rotte, per cui...
La vetrina aveva:
  • Una corolla di fiori secchi e appassiti, perché se non c'è un'aura di depressione, l'hipster s'allontana
  • Sedie rotte e rovesciate a costruire un castello di legno (non in vendita, almeno spero)
  • Vecchi testi per ragazzi con illustrazioni finto ottocentesche; la cicogna, i bambini in calzoncini hitleriani che giocano, la lady in corsetto ecc ecc
  • Borse in pelle per commesso viaggiatore, valigie sfondate, ventiquattr'ore distrutte 
  • Testi in russo, scritti in russo (e quando intendo russo intendo in cirillico)
  • Fotografie sessantottine di vari Hippie che fumano canne
  • Un quadretto con una citazione marxista di Foucault piuttosto generica (Abolition du le societè di classe, mi pare)
Al che credo che il buon Foucault se fosse ancora vivo&vegeto s'incazzerebbe alquanto, a vedersi inglobato e inserito nel sistema mercato come molti altri, letteralmente “venduto” per succhiare soldi a ragazzini dal papà imprenditore che vogliono “distinguersi”.


Questa è stata la prima rigatteria Hipster che abbia mai visto. Rapidamente ne ho individuate altre due, abilmente mimetizzate, ma sempre a pochi passi da un bar. Non mi sono sorpreso a vederci sempre dentro gente della mia età, sui vent'anni, a volte trentenni, quarantenni che avvampano d'emozione a toccare oggetti d'arte così antichi, che possono acquistare per potersene vantare cogli amici. Non si discute il gusto estetico e sono il primo a essere contento che s'acquisti qualcosa di diverso dall'ultimo smartphone in circolazione; ma non posso fare a meno di notare come le stesse, identiche cose le vendano anche i rigattieri normali, quelli brutti e poco “trendy”. Quanto viene acquistato e imballato per un cinquantone, sarebbe sbrigativamente consegnato impolverato ma U-G-U-A-L-E da un normale rivenditore di usati, a meno di metà del prezzo proposto.
Ma così va il mondo, “infighettendosi” ma svuotandosi di sostanza, e accanto alle Boutique della Bao (una volta le chiamavano, indovinate un po'? Edicole!) ora abbiamo le Hipster-rigattierie.
Ma forse un po' Hipster lo sono anch'io, a voler criticare chi preferisce il pulito e l'affabile allo sporco e al disordinato... #maancheno

venerdì 11 luglio 2014

Nelle tempeste d'acciaio, Ernst Junger


C'è sempre stata abbondanza di autobiografie e testimonianze sulla prima guerra mondiale e com'è ovvio l'anniversario 1914-2014 ha portato ristampe e nuove testimonianze.
Ammirevole, in tal senso, l'operazione inglese, che ha reso disponibile la bellezza di 4 milioni di testimonianze (in continuo aumento) di documenti di fanti e ufficiali sul fronte, liberamente disponibili al pubblico. Se iniziative di vario genere sono inoltre attive in Francia e in Italia, la Germania vegeta in una curiosa indifferenza.
La ricorrenza non desta interesse, o viene tenuta viva da piccole cerchie di storici e eccentrici. Un bell'articolo della BBC indagava il curioso fenomeno. Un peccato, perché il testo che volevo proporre in quest'articolo è proprio tedesco e nella cronologia tormentata dei reduci dalla Grande Guerra, è tra le prime testimonianze. Si tratta dei diari di Ernst Junger, Nelle tempeste d'acciaio.

Non senza provare un certo brivido, mi ricordo che durante quella colazione tentai di svitare uno strano, piccolo apparecchio, trovato davanti ai miei piedi sul fondo della trincea; credetti di riconoscere, Dio sa perché, una «lanterna da assalto». Soltanto molto più tardi capii che l'oggetto col quale avevo scherzato era una bomba a mano già priva di sicura.
Niente di nuovo sul fronte occidentale, di Remarque?
Data della prima edizione: 1929
Un anno sull'altopiano, di Emilio Lussu? 1938
E in tutto questo Nelle tempeste d'acciaio data già al 1920!
Il flemmatico Junger aveva raccolto i suoi scritti di trincea, li aveva raccolti, riordinati e li aveva subito mandati alle stampe, con peraltro ottimi risultati di vendita.
Il dato è importante, perché senza nulla togliere al grande valore letterario delle opere precedentemente citate, più ci si avvicina cronologicamente a un evento storico, più – com'è logico- la testimonianza si fa attendibile.

Non è certo una novità che occorra prendere con le pinze le testimonianze storiche “viventi” di chi abbia vissuto di prima persona un conflitto; specie infatti se la testimonianza è orale, il retroterra dell'attuale panorama politico-culturale risulterà impossibile da eliminare. Non si fanno domande in piena oggettività, ci si aspetta sempre una risposta, o quantomeno una risposta di un certo tipo. Così, in Friuli Venezia Giulia, le prime ricerche sui Benandanti degli anni Sessanta incontravano l'ostilità dei contadini, che rispondevano di non aver mai saputo nulla di superstizioni del genere; sapevano bene che la superstizione pagana era vietata e ridicolizzata da preti e gente istruita e preferivano così tacere. Ma dopo neanche vent'anni, la situazione cambia: i ricercatori vengono accolti benevolmente, le superstizioni vengono spiegate, a volte arricchite con particolari inventati. Il contadino è ora consapevole che non lo si sta ridicolizzando; è ormai in pensione, sa cos'è il lavoro di antropologo e l'importanza di conservare le tradizioni. Quella dei Benandanti non diventa più “superstizione” da nascondere.
Piccolo esempio, ma credo utile per chiarire come l'oggettività estrema in storia non esista e come purtroppo non possiamo viaggiare indietro nel tempo e lasciare telecamere che ci diano la visione “fredda e scientifica” che vorremmo.*
Di conseguenza ogni testimonianza sceglie cosa e come trasmettere e su quale tema battere cassa.

Quest'aspetto va tenuto in grande considerazione quando si analizza Junger.
Oltre al suo valore di scrittore, che va al di là del suo ruolo della grande guerra, ma attraversa il novecento con una grande messe di scritti, il nostro giovane tenente annota i suoi diari con stile laconico, lento e preciso.

Il diario esordisce con il suo arrivo al fronte nel 1914 e procede di anno in anno, superando snodi fondamentali, come la sua prima battaglia e la sua prima ferita e arrivando infine al 1918, quando ferito per la quattordicesima volta ricevette la stella d'onore Pour le Meritè.
E persino nei suoi momenti più concitati, il tono è flemmatico, calmo; con nelle vene più ghiaccio che sangue. Il modo con cui viene descritta la trincea del 1915 ricorda più l'aratura dei campi che una fortificazione. Il modo con cui tranquillamente l'autore decide di “fare un giro d'esplorazione” nella trincea nemica, ricorda una scampagnata con gli amici, un picnic mortale. Non c'è sventatezza, in queste descrizioni, o incoscienza; più una sorta di... umh... non saprei come descriverlo, se non la soddisfazione del lavoro ben fatto. Junger, a differenza degli sfortunati coscritti francesi e italiani, si arruola perché lo vuole. Apprezza il lavoro del soldato, lo sente suo.
Ovviamente, questo per un lettore contemporaneo è inaccettabile.
Junger sembra volersi porre in un interstizio, un limbo che non viene mai previsto dagli attuali schieramenti Guerrafondai Vs Pacifisti.
La guerra che combatte non è una guerra “giusta”, combattuta per la pace o per liberare dalla tirannia un popolo.
Non è nemmeno una guerra nazionalista, nel senso di difendere la propria patria o annientare una volta per tutte il nemico.
Per Junger, la guerra è solo guerra. E' un conflitto, che ha valore di per sé stesso, una macchina che carbura esseri umani, ma che non lo spinge a odii insensati o all'amore per l'uccisione.
Con grande abilità, Junger si tira fuori da tutte queste “prese di posizione” pro o contro.
Il lettore di conseguenza è infastidito da tanta indifferenza, perchè abituato a essere imboccato di giudizi netti e severi, di condanne morali lanciate dal cielo. Ma dalla penna di Junger non esce mai né lode né critica.
La guerra è un universo a sé, che trasforma gli uomini in qualcos'altro, al di là del bene e del male.
Le condanne le lancino i preti.

Solo un tenente e un sergente erano riusciti a passare il reticolato. Il tenente cadde benché portasse una corazza sotto l'uniforme, perché una pistolettata tiratagli da Reinhardt a bruciapelo gli aveva conficcato un pezzo di metallo della corazza nel ventre. Il sergente ebbe le gambe quasi amputate dalle bombe a mano; tuttavia tenne fino alla morte, con stoica flemma, la sua corta pipa stretta fra i denti. Anche lì, come del resto dovunque ci scontrammo con gli inglesi, riportammo una favorevole impressione di audacia e di coraggio virile.
In quella mattinata di successi, me ne andavo attraverso la trincea osservando il tenente Pfaffendorf che, sulla piazzola di una sentinella, con gli occhi fissi al binocolo a forbice, dirigeva il fuoco dei suoi lanciabombe. Notai subito un inglese che, dietro la terza linea nemica, camminava al di sopra della copertura, disegnandosi netto sull'orizzonte con la sua uniforme kaki. Strappai di mano alla sentinella più vicina il fucile, regolai l'alzo a seicento metri, presi di mira l'uomo un poco avanti alla testa e premetti il grilletto. Quello fece ancora tre passi, poi cadde sul dorso, come se gli avessero tolto le gambe di sotto il corpo, agitò le braccia e rotolò nel cratere di una granata; attraverso le lenti vedemmo brillare ancora a lungo la sua manica marrone fuori dell'orlo.

lunedì 7 luglio 2014

Zuckerberg! Chi era costui?


Criticare i Social Network riscuote sempre grande successo – specie se quest'aristocratico disprezzo per i likes e i commenti viene condiviso, diffuso e approvato sul Social Network stesso. Si sviluppa di conseguenza un fenomeno paradossale, per cui Facebook rigurgita di confessioni di gente che si vergogna di essere su Facebook, si vergogna di vivere in funzione di esso, si svela con narcisistica compiacenza puritana al suo pubblico, raccontando peccatucci e miserie cui nessuno importa.

Pinterest, avendo un carattere più raffinato della media, diventa il Social per eccellenza di donnine sciocche su cui fare stalking, Tumblr è solo “un raduno di porno” nonostante sia normale per le università americane usarlo come piattaforma dei corsi, o venga usato nell'ambito della critica videoludica da personcine come Sarkesiaan. Il deprecato, aborrito Facebook viene considerato l'arena del cazzeggio, eppure a stringere contatti più interessanti della Pagina Facebook di Topolino, si scoprono interrogativi e articoli che normalmente non ci si sarebbe nemmeno posti – e siccome tengo in maggior stima le domande che le risposte, dal mio punto di vista trovo che nella giornata giusta Facebook sia un luogo più stimolante di certi ambienti “reali”, a cominciare dalle asfittiche aule dell'università.

Non sono interessato a un peana dei Social Network, ma solo a considerarli quanto sono, ovvero un gigantesco (e visitabile) ufficio del catasto. Indubbiamente la scrittura ha molti difetti, a cominciare dall'indebolimento della memoria, come accusava Platone. E nelle mani sbagliate si può fare un sacco di danni sapendo scrivere – non è forse il detto “la penna ferisce più della spada?” Tuttavia non per questo, a partire da Platone stesso, abbiamo rinunciato alla scrittura. Chi critica i Social Network usandoli nel frattempo non è molto diverso da Platone che critica la scrittura attraverso la scrittura stessa. Certamente l'uso della scrittura condiziona un certo modo di pensare, esattamente come usare i Social Network determina un certo comportamento, un certo atteggiamento mentale.
Tuttavia, non lo domina mai completamente. L'uomo non è uno schiavo della tecnologia, non è una marionetta schiava di un progresso ineluttabile. Il determinismo tecnologico, tipico di Wired, non ha alcuna base scientifica, è un semplice bisogno “di più”: più tecnologia, più progresso, più memoria ram, accessibilità, reti, ram, bit. Non è detto che si debba abbracciare acriticamente ogni nuovo ritrovato tecnologico, e non è detto che per ogni tecnologia esista un unico e possibile modo d'usarla. E sopratutto, con buona pace della moda e di Wired, non usare l'ultima tecnologia del momento non porta alcun ritardo o “handicap”. L'alfabeto – in sé una tecnologia che veniva percepita dall'uomo bianco come “superiore conquista” – venne imparato per necessità dai nativi americani Cherokee nel giro di pochi anni. Non si limitarono a imparare l'alfabeto occidentale, ma ne crearono uno proprio. Nel 1821 stampavano perfino un proprio giornale!
Un apprendimento mostruosamente veloce, per quella che veniva considerata una conquista culturale di lunga durata. Allo stesso modo e anzi di più, maneggiare una periferica, il touch rispetto alla tastiera, è semplice questione di manualità e abitudine. Non è un'ineliminabile tacca del progresso.
Quando passo in rigatteria, a volte mi perdo a sfogliare vecchie riviste di elettronica anni Settanta.
E indovinate? Ogni prototipo, ogni nuova invenzione veniva proposta con lo stesso tono “ineluttabile”: se volete restare al passo, aggiornatevi, non perdete tempo. Se non comprerete l'ultimo modello di registratore, sarete otudated, sorpassati, primitivi che accendono il fuoco coi legnetti anziché colla carbonella.
Il problema ovviamente è che nessuno di queste mirabolanti conquiste pubblicizzate in queste riviste erano roba davvero utile; era per larga parte tecnologia inaffidabile, prototipi con cui si veniva inondati ogni anno. Spazzatura elettronica, oggigiorno nemmeno buona per i musei. 
Ritornando ai Social Network, si sbaglia a ritenerli “ineluttabili” tanto quanto si sbaglia a ritenerli negativi di per sé, come se il progresso c'avesse indirizzato per una cattiva strada e non ci sia più alcun modo per uscirne. Inoltre siamo così sicuri che molte delle caratteristiche di Facebook siano riconducibili (e criticabili) a Facebook stesso e non siano semplice caratteristiche umane?

Prendiamo il caso di un utente che continua ad aggiornare giorno dopo giorno il proprio profilo con foto personali. L'utent(essa), ne decidiamo il sesso, aggiunge continuamnete foto alla bacheca, crea nuove cartelle, si tagga più e più volte. Recupera e scannerizza vecchie foto d'infanzia. L'asilo, le elementari, le medie. Addirittura migliora le sue foto con Photoshop! Orrore!

Ora, una persona del genere e sono il primo a dirlo, risulta irritante, perché troviamo che sia molto narcisista. Ma è proprio vero? E se non fosse che questo continuo profluvio di foto serva piuttosto per fissare un'identità, imprimersi sull'armadio (virtuale) cui ci svegliamo ogni giorno cosa fare e come comportarsi? Spesso riferendosi alle foto su Facebook, la gente sembra parli di un album di famiglia. Ma è un esempio sbagliato sotto tanti aspetti, dei quali il più importante è che le foto di famiglia vanno nel cassetto, sfogliate solo una tantum. Nessuna moglie sana di testa ogni volta che si sveglia va a guardarsi le foto del matrimonio. Tuttavia, molti se non tutti hanno sott'occhio su Facebook le proprie foto e le trattano come immagini diverse dalle fotografie per ricordo.
La chiave credo stia in un passaggio dei Promessi sposi, protagonista Don Rodrigo:

"Don Rodrigo, come abbiam detto, misurava innanzi e indietro, a passi lunghi, quella sala, dalle pareti della quale pendevano ritratti di famiglia, di varie generazioni. Quando si trovava col viso a una parete, e voltava, si vedeva in faccia un suo antenato guerriero, terrore de' suoi nemici e de' suoi soldati, torvo nella guardatura, co' capelli corti e ritti, co' baffi tirati a punta, che sporgevan dalle guance, col mento obliquo: ritto in piedi l'eroe, con le gambiere, co' cosciali, con la corazza, co' bracciali, co' guanti, tutto di ferro; con la destra sul fianco, e la sinistra sul pomo della spada. Don Rodrigo lo guardava, e quando gli era arrivato sotto, e voltava, ecco in faccia un altro antenato, magistrato, terrore de' litiganti e degli avvocati, a sedere su una gran seggiola coperta di velluto rosso, ravvolto in un'ampia toga nera; tutto nero, fuorchè un collare bianco, con due larghe facciole, e una fodera di zibellino arrovesciata (era il distintivo de' senatori, e non lo portavano che l'inverno, ragion per cui non si troverà mai un ritratto di senatore vestito d'estate); macilento, con le ciglia aggrottate: teneva in mano una supplica, e pareva che dicesse: vedremo. Di qua una matrona, terrore delle sue cameriere; di là un abate, terrore dei suoi monaci: tutta gente insomma che aveva fatto terrore, e lo spirava ancora dalle tele. Alla presenza di tali memorie, don Rodrigo tanto più s'arrovellava, si vergognava, non poteva darsi pace, che un frate avesse osato venirgli addosso, con la prosopopea di Nathan... "
Un giovane paperon de paperoni ricorda la propria storia guardando le immagini dei propri antenati
I quadri degli antenati servivano a don Rodrigo come guida al corretto comportamento.
Allo stesso modo, le immagini su Facebook servono all'utente come guida al corretto comportamento, dove ovviamente corretto è da intendersi come la morale/ guida di ciascuno. Riprendendo la nostra utentessa, l'uso dello Photoshop non è troppo lontano dai miglioramenti che i pittori rinascimentali apponevano ai principi che dovevano ritrarre. Solo i masochisti vogliono un'immagine di sé brutta; correggere la lunghezza del naso in punta di pennello o con il cursore del mouse è la stessa, identica operazione; solo traslata in contesti diversi. Senza riferirsi ai Social Network, l'immagine come “rinforzo” e “guida” viene già analizzata dalla filosofia estetica in maniera certo più chiara del sottoscritto:

"Nei palazzi nobiliari si era soliti raccogliere in una stanza o in un corridoio i ritratti degli avi e basta percorrere oggi quelle stanze e quei corridoi per comprendere come una simile galleria di volti dovesse rammentare agli ospiti e agli stessi eredi quale fosse il comportamento d'assumere. Ma se un ritratto può incutere soggezione, un altro può invitarci a un ricordo carico d'affetto e un terzo può darci da pensare. Le funzioni delle immagini sono molte: si possono appendere immagini sacre davanti alla porta di casa per sentirsi protetti, raccogliere fotografie in un album per sorreggere il racconto che si farà sfogliandolo e si può tenere una fotografia della propria famiglia in ufficio per legare due scenari della propria esistenza."
Aggiungere foto su Facebook non è “aumentare il proprio ego”.
Sono convinto che più spesso di quanto si pensi è un modo per costruire una genealogia e cercare di costruire una qualche identità che non sia schiava del consumo e della valutazione. Tutti abbiamo diritto ai nostri quadri e ai nostri antenati e a essere qualcosa fottutamente di più, di consumatori che consumano soddisfatti. Sia coloro che criticano i Social Network, sia coloro che li ritengono “il Futuro” sono d'altronde in genere ostili alla Storia...

Fonti:
Armi, acciaio e malattie, Diamond (rif. all'alfabeto Cherokee, pur con le necessarie pinze, visto che Diamond non è proprio il massimo...)
Simile alle ombre e al sogno, Spinicci (rif doppia citazione)