lunedì 19 febbraio 2018

Sudario, di Clive Barker: il fascino tossico del cinema


La rilettura dei “Libri di Sangue” di Barker procede con lo stesso ritmo forsennato di un cuore tachicardico: meno d'una settimana per completare il terzo volume, intitolato nell'edizione Sonzogno, “Sudario”.

L'aggettivo “lovecraftiano” sottintende un'adesione alle idee e all'immaginario di HP Lovecraft.
Mi sembra implicito nel termine: lovecraftiano, di Lovecraft, appartenente allo scrittore. 
Il problema sta nella delimitazione di cosa si dovrebbe considerare “lovecraftiano” e cosa invece costituisce patrimonio comune dell'horror. 
Ad esempio un racconto dove il protagonista viene assalito dai topi, non è un racconto lovecraftiano, nonostante la gemellanza con “I ratti nei muri”. Cifra distintiva di quella storia non erano solo i topi, ma la discendenza genealogica, la maledizione genetica perpetuata di generazione in generazione, la discesa nella follia... troviamo ovunque storie horror con ratti assassini, non sono certo un elemento lovecraftiano. 
Allo stesso modo, i portali extra dimensionali sono esistiti dagli albori della letteratura popolare, dalle dime novels, dal pulp, dalla fantascienza dozzinale. Il concept “entità aliena proveniente da un'altra dimensione” non è certo propriamente lovecraftiana. Tuttavia, se quell'esistenza aliena con il suo stesso esistere pone in negazione la Terra e tutto ciò che definiamo “realtà”, o in altre parole, se quell'entità smentisce lo stesso concetto di “esistere”, come il costrutto verbale associato a questo termine, come la stessa possibilità di formulare un pensiero... forse ci stiamo avvicinando a qualcosa che si potrebbe definire lovecraftiano, nel senso che sprigiona un autentico terrore esistenziale.

Clive Barker, uomo acculturato, avrà senza dubbio letto HP Lovecraft; è tuttavia dubbio che gli si sia mai ispirato. La filosofia di fondo delle sue opere, tanto fantasy quanto horror, non sono lovecraftiane. I cenobiti vengono spesso definiti lovecraftiani e nelle opere ispirate all'autore, all'aggettivo del primo si affianca il secondo: “The Void” sarebbe lovecraftiano e barkeriano. 
Un errore di analisi piuttosto grave, anche se sono il primo a farlo, si veda ad esempio la mia recensione di Infernalia del 2014. I cenobiti, sì, provengono da un'altra dimensione. Innegabile. Tuttavia rimangono differenti alla realtà che li circonda; meri esecutori dell'inconscia volontà di sofferenza dello sventurato che ha aperto la scatola. I cenobiti non sottintendono inoltre alcuna visione del mondo lovecraftiana: non tendono a un'apocalisse, non sono agenti di un caos inconsapevole, sono minacce individuali, come tali ristrette alla psiche del protagonista. Qualsiasi sia il racconto di Barker, il cosmicismo proprio di Lovecraft è sempre assente. Il regista di Hellraiser ha poco a che fare con le mostruosità aliene e con il weird del Solitario di Providence. Siamo su tutt'altro livello, tutt'altro piano dimensionale. Come ho già scritto altre volte, Barker è un autore profondamente romantico. E' un autore impegnato nella rivisitazione delle mitologie e dei classici del gotico, affiancando in tal senso negli stessi anni (1990) un autore fantasy quale Neil Gaiman. Mentre Lovecraft discende di periodo in periodo nei barocchismi della mente, in lunghe e affascinanti confessioni su carta, Clive Barker è un autore visivo. Tratteggia panorami, descrive stupefazioni, inneggia alla potenza immaginativa di affreschi, di quadri, di disegni, di graffiti. C'è un elemento della filosofia estetica in Barker, anche nei suoi goffi tentativi accademici di difendere l'immaginazione e il potere dell'arte. Lovecraft nutriva un altrettanto maniacale attenzione all'arte e le accuse di vaghezza e incomprensibilità ai suoi racconti vengono contraddette dalla cura che dimostra nella descrizione anatomica e architettonica (in effetti Lovecraft alcune volte descrive gli edifici con l'empatia di un essere umano e gli esseri umani con l'empatia di un edificio).
Lasciando da parte Hellraiser e prendendo in considerazione i “Libri di Sangue”, Clive Barker adopera inoltre una vasta gamma di citazioni bibliche e religiose, oltre che un apparato demonologico, cabalistico e angeologico che sebbene mai preso sul serio sarebbe impensabile per HP Lovecraft.

Figlio di celluloide

La storia di un evaso dal carcere, Barberio, che si rifugia in un vecchio cinema abbandonato e muore alcune ore dopo per un pallottola nella gamba. A sua insaputa, Barberio nutriva da tempo un tumore, che esce dal suo corpo e si fonde con lo schermo del cinema. Si tratta di una sorta di alieno, un bau bau che si nutre delle emozioni degli spettatori ed è in grado di attirarli mutando la propria forma nelle sembianze dei divi dei film. 
E', per l'appunto, un “Figlio di celluloide”.

Gli autori degli anni '70 e '80, tanto nella narrativa (Stephen King) quanto al cinema (Spielberg), hanno sempre nutrito una malsana affezione per gli anni '50, rivissuti nell'idealizzazione propria della cultura americana dell'immediato secondo dopoguerra.
Gli autori horror pagano sempre, a modo loro, un omaggio al cinema bianco&nero e alla filmologia della Hammer, che nel bene e nel male, li aveva introdotti al genere. 
Clive Barker, con “Figlio di celluloide”, omaggia e nel contempo dissacra: se l'affetto verso la cinematografia di quegli anni trapela dalle pagine, nel contempo lo svolgimento della storia e la stessa natura del “mostro” impediscono di abbandonarsi alle lacrime “del bel tempo che fu”.

Come altre storie di questa raccolta, “Figlio di celluloide” soffre di continue intermissioni dell'autore, nelle forme di giudizi ironici, digressioni e continui “raccontati”. La storia in sé funziona, ma l'idea alla base viene sfruttata solo a metà, anche se conserva alcune scene d'impressionante impatto, specie quando il tumore/alieno assume le forme degli attori, da John Wayne a Marilyn Monroe. Ovviamente, come con il “Canyon delle Ombre”, “Figlio di celluloide” è una fortissima critica all'industria cinematografica, un tema quanto mai attuale: la popolarità, i divi, i producers alla Weinstein sono, letteralmente in questo caso, tumori della società.

Testacruda Rex

Zelo è un pacifico villaggio a sud est di Londra, una meta prediletta di turisti e uomini di città ansiosi di trasferirsi nella calma della natura. Gli abitanti, chiamati zeloti, sono campagnoli di origine celtica abituati al passaggio di ogni genere d'invasione, dai romani, ai normanni, agli odierni “nuovi barbari (…) armati di buone maniere e denaro contante”.
La calma del paesino va incontro a una dura prova quando uno dei contadini svelle una lapide preistorica, liberando così una creatura umanoide che vi era stata sepolta e maledetta. Una creatura pagana, simboleggiante la morte e il principio maschile, dall'aspetto di un troll e voracemente affamata di carne umana. Si dia inizio al bodycount...


“Testacruda Rex” è una storia con due anime contrapposte, che raramente al di fuori dell'universo di Barker riuscirebbero a coesistere: da un lato uno slasher che si stenta a definire “storia”, tanto le diverse scene di uccisioni sono scollegate tra loro; dall'altro sulle stesse scene di uccisioni Barker ricama una ragnatela di simbolismi, di mitologie, di giochi e riferimenti ironici.
Testacruda, ad esempio, è chiaramente un mostro pagano, abituato a regnare sugli umani e a pasteggiare con bambini cristiani nel folto della foresta. Tuttavia la soluzione per sconfiggerlo, che si annuncia “nascosta” nella chiesa, è una venere preistorica, dunque un altro oggetto pagano, simbolo di quel principio femminile verso il quale Testacruda è l'esatta antitesi (a sua volta Barker ironeggia sull'intera faccenda, senza prendersi sul serio).

Purtroppo tutto ciò non impedisce a Barker di scivolare dentro tanti errori da principiante, dallo stile di scrittura piuttosto rozzo, facile al turpiloquio sgraziato, alle intermissioni del narratore onnisciente e i continui cambi di protagonista e prospettiva. Se siete appassionati di vhs, horror anni '80 e adattamenti improbabili, recuperate il film di culto che spinse un disperato Barker a darsi alla carriera cinematografica proprio per evitare futuri scempi del genere.

Confessioni di un sudario (di pornografo)

Ronnie Glass è un contabile piccolo piccolo, che ha sempre desiderato trascorrere una vita tranquilla e rispettabile. Nel tentativo di arrotondare il suo magro salario, accetta di svolgere delle pratiche burocratiche per degli “amici”, che si svelano essere malavitosi e trafficanti di materiale pornografico. Quando Ronnie scopre che sta conteggiando i guadagni d'un giro illegale si rifiuta di continuare, viene minacciato, pestato e infine denunciato alle autorità come l'unico responsabile e pubblicizzato sui giornali come il “pornografo”. L'uomo si vendica uccidendo due dei tre mafiosi che l'avevano incastrato, prima di venire catturato, torturato e ucciso. Al momento dell'autopsia, tuttavia, l'ancora infuriato Ronnie “anima” il sudario e come un moderno fantasma si dirige verso i suoi uccisori...

Solitamente le rivisitazioni dei classici di Barker non sono tra i suoi lavori migliori, perchè ostacolati dalla struttura originaria, che si può rovesciare e sovvertire, ma con un preciso limite di fondo. Se scrivi di Dracula, devi scrivere di un vampiro dalla Transilvania. E' implicito nel tema. Il rovescio della medaglia è l'apprezzamento di tanti lettori, che si ritrovano altrimenti spaesati dal surrealismo e dalle descrizioni schizoidi di tanta produzione barkeriana.
Rivisitare vecchi stereotipi conforta il lettore.

“Sudario” compie un'operazione simile, ma alla rovescia. Invece di presentare lo stereotipo e rovesciarlo da cima a fondo, presenta una situazione originale e la rovescia fino a farla ridiventare un vecchissimo cliché. Ronnie al momento della morte rimane cosciente e la sua anima fuoriesce in cerca di vendetta dal suo corpo materiale, fondendosi con il sudario della sala delle autopsie. La mente di Ronnie anima il sudario, che diventa il suo “corpo”: può dargli forma, consistenza, addirittura con sforzo (sovr)umano modellarlo nelle fattezze di un volto con occhi, bocca... un volto umano, anche se dal bianco pallore proprio di un lenzuolo.
Riuscite a riconoscere lo stereotipo... è il fantasma! Il cliché più vecchio, più tradizionale, il primo fantasma che tutti da bambino impariamo a camuffare: un lenzuolo (il sudario) sul corpo, con due fori a mo' di occhi e le braccia che agitano i lembi per spaventare il fratello o la povera nonna o l'animale domestico, ecc ecc

Come con “Testacruda Rex” lo stile di scrittura risulta altalenante e lo stesso svolgimento della storia andava accorciato, specie nel confronto finale con il boss mafioso.

Clive Barker nel 1986
Capri espiatori

Quattro turisti su una barca a vela, destinazione: sole e divertimento. La realtà cruda di un viaggio in mare senza meta e senza preparazione: tensione, litigi, incidenti, chiglia intrappolata sullo scoglio di un'isoletta dimenticata dagli dei, nient'altro che sassi e spazzatura. La situazione sembrerebbe già fosca, tra la radio rotta e una nebbia persistente, quando i protagonisti scoprono la locazione: quella non è un'isola ma un cimitero...

Storiella sulla falsariga di tanta produzione di Stephen King.
Gruppo più o meno odioso di giovani protagonisti entra in contatto con una situazione soprannaturale che si rivela mortale e muoiono tutti, nessuno escluso. La sola differenza è il livello di splatter e violenza, così come una sincera inquietudine trasmessa dalle prime pagine, quando i turisti vagano sull'isola inconsapevoli di trovarsi sui resti di una gigantesca necropoli.
"Sarebbe un cimitero?" chiese Angela. "Che tipo di cimitero?"
"Morti di guerra," rispose Ray.
"Vuoi dire un cimitero di vichinghi o qualcosa del genere?"
"Prima guerra mondiale, seconda guerra mondiale, soldati di navi da trasporto silurate, marinai portati fin qui dalla Corrente del Golfo. Sembra che ci sia un gioco di correnti per cui i morti vengono abbandonati dalla risacca sulle spiagge delle isole qui intorno.""Abbandonati dalla risacca?" ripetè Angela perplessa.
"Così c'è scritto."
"Ma ormai non succederà più."
"Io credo che di tanto in tanto ci arrivi ancora qualche pescatore sfortunato," rispose Ray.

Il racconto è molto più coeso delle storie precedenti e la prima persona adottata tiene col fiato sospeso il lettore, ma gli manca quella scintilla di follia e/o genialità che contraddistingueva il resto dell'antologia.

Spoglie umane

Gavin è un giovane gigolò a Londra, che si guadagna da vivere alla giornata.
Raffinato, a suo agio nel sottobosco criminale della metropoli, Gavin è tuttavia preoccupato dall'avanzare delle rughe, fin troppo consapevole di non avere altro da offrire una volta trascorso il fiore della gioventù. Mentre spera di conquistare il cuore di una ricca ereditiera Gavin viene invitato da uno dei suoi clienti, un amante dell'archeologia. Tra i suoi reperti l'uomo conserva una statua dell'era romana, dalla fattezze facciali stranamente simili al volto di Gavin...

“Spoglie umane” è la perla dell'antologia, last but not least, il racconto da solo meritevole dell'antologia. Come con “Sudario”, anche con “Spoglie umane” Barker introduce un elemento soprannaturale che appare “diverso” dalla norma a cui siamo abituati, salvo in seguito ri-trasformarlo nell'ennesimo stereotipo che tutti amiamo: in questo caso le bambole.

Gavin è chiaramente un personaggio parzialmente autobiografico, se se considerano i trascorsi di Barker negli anni '80, quando le vendite dei primi libri e del lavoro teatrale non riuscivano a supportarlo e si ritrovava spesso a lavorare nel settore della prostituzione.

La filosofia di fondo tanto dello Splatterpunk quanto dello stesso Barker predicava inoltre di scegliere protagonisti e comprimari dai margini della società: un requisito ancora una volta soddisfatto dalla figura di Gavin. Barker inoltre non ama i personaggi troppo idealizzati: Gavin è vanitoso, a tratti violento, con una pericolosa dose di egoismo.

La statua che Gavin scopre a mollo nella vasca da bagno di un suo cliente è una statua romana trafugata illegalmente da uno scavo archeologico. La pericolosa somiglianza tra Gavin e la statua trova una sua altrettanto pericolosa coincidenza i giorni che seguono, quando Gavin scopre di avere un doppelganger. Un suo doppio gira per le strade di Londra, ammazzando e mutilando i suoi clienti. Si tratta della statua stessa, in realtà una creatura magica che scolpisce il suo corpo di marmo nelle perfette sembianze di chi ha scelto di “sostituire”: giorno dopo giorno si modella nelle forme dell'originale umano. E' inoltre possibile accelerare il processo con bagni di sangue umano.

L'idea della statua rimanda a bambole e manichini – da sempre un elemento dell'horror – mentre la sostituzione del sé mediante una “copia” rimanda a un classico degli anni '50 come L'invasione degli ultracorpi. E ovviamente c'è qualcosa di Dorian Gray, a partire dal narcisismo di Gavin.
  

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