lunedì 4 dicembre 2017

No, Blade Runner 2049 non è un film sessista (e non lo è nemmeno The Witcher)


La mia prima visione di Blade Runner 2049, a pochi giorni dall'uscita nelle sale, fu un'esperienza estetica ai limiti del doloroso. 
Non sono uno storico dell'arte, non è il mio campo, ma ho avuto modo in passato di restare ore a soffermarmi sui dettagli di un quadro. 
La visione di Blade Runner 2049 rientra per me in questo genere d'esperienze. 
Se il film è in primo luogo una catena d'immagini e compito del regista è organizzare queste immagini per darne un senso tanto artistico quanto narrativo, Blade Runner 2049, come Mad Max: Fury Road, sono entrambe opere di cinema nel senso più classico del termine.

Il dialogo è spezzato, pieno di intermissioni; la storia sfilacciata, quasi inesistente; è cinema che si rivolge all'occhio e all'occhio soltanto. 
Come nell'esperienza visiva del quadro, siamo di fronte a qualcosa che c'è e nel contempo non c'è: sappiamo che quanto stiamo guardando è un montaggio di scene girate con una cinepresa, recitata da persone che si fingono chiamate “attori”; nel contempo crediamo ai nostri occhi, siamo dentro a un mondo alternativo, che siano gli acquerelli di un quadro che diventano la Parigi del 1890 o le scene di una ripresa che diventano un'alternativa Los Angeles del 2049.
A mio giudizio, a mesi di distanza, Blade Runner 2049 resta un'esperienza estetica. E' un'opinione e come tale discutibile, ma è chiaro come il regista abbia escogitato ogni mezzo, ogni risorsa, ogni attenzione per ricavare il massimo godimento estetico.
Quanto mi fanno pena le miriadi di recensioni dei professionisti del settore, dove si avverte sempre questo auto compiacimento, questa soddisfazione trattenuta, questo sorrisetto di circostanza di chi si è divertito, ha colto la citazione e ha gustato una “bella storia”.
Al diavolo! Io non voglio vedere un film dove esco dalla sala soddisfatto.
Voglio uscire barcollante, distrutto, traumatizzato nel profondo.
Agogno i film dove la visione non è solo un piacevole “passare il tempo”, ma dove lo spettatore sia in orgasmo di minuto in minuto, d'inquadratura in inquadratura.
Non è stancante questo atteggiamento sempre compiaciuto e puntiglioso, attento a non cedere mai all'elogio o all'entusiasmo?
Questa pena profonda che avverto ogni volta che leggo l'ennesimo riassunto stitico, dove il recensore fa il suo bel compitino: elenco degli attori, trama copia-incolla, considerazioni con il naso tirato all'insù.
Viene il dubbio: piace davvero quello che fanno?
Amano davvero il medium che hanno scelto come sbocco professionale?
Posti di fronte alla cecità visiva di chi scrive che Blade Runner “non gli ha comunicato nulla”, con i due soliti appunti sui buchi di sceneggiatura, sugli effetti speciali, su Jared Leto “attore cane”.
Questo scrivere con la fronte perpetuamente aggrottata, sempre alla ricerca del nuovo film da distruggere per fare gli alternativi, con le rivalutazioni della merda più infame, da Fast and Furious a Transformers. E questa sensazione piccola piccola, dove si apprezzano le piccole cose, i piccoli film, le piccole commedie, dove si scrive un piccolo libro, un piccolo articolo...
Com'on! Non mi aspettavo nulla di piccolo, da Blade Runner 2049. Mi aspettavo qualcosa di grande. E ho ottenuto qualcosa di gigantesco, di colossale. Massivo. Gargantuesco. 
Come il sublime delle Alpi deriva dalla sensazione di schiacciamento e incomprensibile meraviglia che si prova a vederle, senza riuscire a vederle davvero, o il concetto di infinito viene afferrato senza riuscire mai a comprenderlo davvero, così è con Blade Runner 2049.
E' un film sublime nel senso kantiano del termine.


Criticare è lecito, quando ci si limita a criticare aspetti propri di una cultura e come tali suscettibili di miglioramento. E' lecito criticare una religione, perchè l'individuo è libero di lasciarla, di cambiarla dall'interno, di azzardare una difesa delle proprie convinzioni. Non è possibile criticare una persona sulla base del colore della pelle, per il semplice motivo che non è un elemento che possiamo modificare. Se applichi un'inerente malvagità all'essere bianco, come fanno i liberal, o all'essere nero, come fanno i conservatori, poni la data persona in un dilemma insolubile, perchè non può rispondere a una critica del genere. Allo stesso modo sarebbe estremamente crudele criticare un diversamente abile, perchè diversamente abile, uno zoppo perchè non è in grado di correre, un non vedente perchè non sa descrivere i colori ecc ecc.
Ugualmente, non si può criticare Blade Runner perchè “gli spettatori erano tutti maschi”. 
Se questo è ciò che dicono le statistiche, va bene: Blade Runner ha un pubblico maschile. Ma qual'è il senso di questa critica? In che modo, io, spettatore maschile posso reagire a una critica simile?
Sarebbe egualmente vile lamentarsi che tutti i film romantici hanno un pubblico esclusivamente femminile. Come può reagire una donna accusata di guardare “cose da donne”? E che assurdità è?
Al di là che non esistono film per donne e film per uomini, far sentire una persona in colpa solo sulla base della sua identità è crudele.
Una critica a Blade Runner è giunta proprio da questo primo punto, disegnando l'immagine di un pubblico di maschi – che non so perchè caratterizzare come maschi e bianchi, considerando che si tratta di elementi per l'appunto immodificabili – che andavano a guardare un film “da maschi” che forniva un'immagine negativa della donna.
Qual'è il senso di accusare una persona di andare a vedere un film “perchè donna”? 
O in questo caso, “perchè uomo”? Mi sembra un punto facile se si vuole un titolo sensazionalista, ma guardato da vicino non ha molto senso. Il mondo si muove per un complicato intreccio di cause economiche e sociali, bene al di là di queste ingenuità riduzioniste.

Il secondo punto della critica a Blade Runner, strettamente collegato al primo, è l'accusa di ritrarre una carrellata di personaggi femminili fortemente negativi, ridotti a rango di servi o folli assassine.
L'argomento in questione purtroppo soffre d'una gravissima mancanza d'analisi e nello specifico, un'incapacità di ragionare per metafore.
Ho riscontrato un'eguale critica su Polygon a Witcher 3: Wild Hunt, dove si accusava il gioco di non avere personaggi etnicamente diversi, specialmente neri. 
E' una prova di quanto sia basso il livello del giornalismo videoludico: da un lato, incapace di attrarre i giocatori, dall'altro che manca di ogni capacità minima – minima! – d'analisi.

La metafora è una banale figura retorica, dove si sottintende una similitudine, eliminando il come e con l'inserimento di un altro termine dall'eguale significato. 
Esempio: “il ruggire dei motori”. Si sostituisce al rumore dei motori il ruggito, evitando di scrivere: “il motore faceva rumore come un ruggito”.
In quest'ambito, può anche aiutarci l'allegoria: ovvero esprimere un concetto astratto con un'immagine concreta. In altre parole, usare un simbolo. Particolare interessante, le allegorie sarebbero da evitare nei fantasy – convinzione tanto mia quanto di Tolkien. Si prestano infatti a soluzioni troppo semplicistiche.

In entrambi i casi, come con Blade Runner 2049 così con Witcher 3, i recensori non sanno cosa sia una metafora o un'allegoria. Neppure nel senso più largo e traslato immaginabile.
Grave, ma non sorprendente.


Nel caso di The Witcher, gli elfi, i nani e le creature fantastiche intelligenti sono allegorie delle minoranze oppresse. E' un paragone reiterato così tante volte nei racconti di Sapkowski e nella trilogia videoludica che mi sembra stupido doverlo scrivere. Come le minoranze etniche della Polonia sono state oppresse nel corso della storia e a sua volta la Polonia è stata oppressa come nazione, così nel mondo dello Witcher gli elfi e i nani sono oppressi e perseguitati. Come gli afroamericani delle periferie, sono cacciati, etichettati e linciati in base alla propria appartenenza etnica – ovvero in base a un fattore su cui non hanno controllo.
Ripeto: dal punto di vista narrativo, non è una soluzione ideale.
L'allegoria è qualcosa di debole e spicciolo, ma non di meno in Sapkowski funziona egregiamente. Nel primo videogioco assistiamo a un pogrom nel ghetto dove vivono gli elfi e i nani che non ha nulla a invidiare a rivolte e linciaggi del mondo “reale”: nei panni di Geralt assistiamo a folle con torce e forconi, a impiccagioni, a civili in fuga. Fin troppo realistico. Il doppio paragone balza subito alla mente: gli elfi e i nani come gli ebrei perseguitati, come la resistenza polacca sotto il regime sovietico, come nella realtà contemporanea le diverse minoranze perseguitate nel mondo. 
E' una convinzione talmente universale, talmente ovvia che non sento il bisogno di un personaggio afro americano per farmi comprendere cosa voglia dire il razzismo. 
La Polonia è un paese che è passato rispettivamente sotto una dittatura tedesca con i cavalieri teutonici, napoleonica, zarista, nazista e infine sovietica. In tutti i casi, tranne che sotto l'Austria-Ungheria, il dominatore ha mirato a sradicare ogni traccia della cultura originaria polacca. Una metodica estirpazione che in modo conscio o inconscio è sicuramente presente in Sapkowski e così nella sua trilogia videoludica.
Potremmo discutere poi fino a qual punto il dominatore a sua volta influenzi il dominato, che ne assimila i metodi: sotto l'attuale governo polacco, i metodi sono quelli dei padroni dei secoli precedenti. Non dovrebbe sorprendere: c'è una continuità purtroppo notevole tra il governo coloniale britannico e il governo indiano “indipendente”: identico uso del potere, identica oppressione cieca, identici mezzi. Se non modifichi le strutture economiche di base, difficilmente cambi qualcosa, non importa se chi sale in carica è di etnia, nazionalità, genere diverso.
In ogni caso, nel mondo di Sapkowski e nei primi due videogiochi dello Witcher, la lotta al razzismo è un elemento cardine del gioco: Geralt è continuamente messo a confronto con storie e scelte morali dove l'umano è peggiore del mostro. A sua volta la fazione oppressa replica con atti di terrorismo, con una guerra sporca che ha inevitabili rimandi al contemporaneo: ancora una volta si tratta di allegorie e metafore, autoevidenti.
Non ho giocato il terzo Witcher – il mio laptop potrebbe esplodere sotto tutta quella grafica – ma dai video e da quanto ho letto in Rete il tema rimane lo stesso.


Nel caso di Blade Runner 2049, la metafora è ancora più evidente, ai limiti del lapalissiano.
Il replicante in fondo è una macchina e dunque un oggetto di consumo, venduto da un capitalismo post apocalittico. La Terra è abbandonata a poche multinazionali, l'economia è desertificata, ridotta a polizia e sussistenza. I replicanti si comportano come persone umane e sono persone, ma per il capitalismo che li ha prodotti sono macchine
Schiavi, uomini e donne ridotti al rango di oggetto. E' Wallace stesso a sottolinearlo nei pochi dialoghi del film. Un Jared Leto piuttosto convincente, in barba ai critici. 
In quest'ambito, la condizione delle donne replicanti è una perfetta allegoria delle condizioni della donna oppressa da un regime economico che la riduce al rango di oggetto. Non è difficile comprenderlo, è il fulcro della questione: schiavi che vogliono ribellarsi a un padrone che li considera elettrodomestici, sullo stesso piano di un tostapane. 
L'allegoria dei replicanti come schiavi non è originale nella fantascienza o nel cyberpunk. Nel videogioco Deus Ex Mankind, la condizione di chi si sostituisce parti del corpo con parti artificiali, diventando un cyborg, viene paragonata all'odierno razzismo, con tanto di sorveglianza della polizia, stereotipi razziali, ghetti e persecuzioni. 
I replicanti assolvono un ruolo simile: sono allegorie della condizione del lavoratore contemporaneo, ridotto a ingranaggio, nel caso della donna ridotto a corpo-oggetto delle Multinazionali. 
E' talmente banale, talmente ovvio.
Blade Runner 2049 presenta una donna (umana), ovvero Joshi, il capo di dipartimento dell'LAPD.
E' una metafora della donna neoliberale in posizione di potere, Hillary Clinton docet.
Luv è una replicante di Wallace: nella metafora schiavile di Blade Runner è l'Uncle Tom, il nero che aiuta il padrone a rintracciare gli schiavi fuggiti dalla piantagione. Farà di tutto per leccare la mano di chi la opprime, perchè indottrinata dalla nascita. Nel caso in questione, è un'allegoria letterale: il software del replicante Luv è programmato all'obbedienza incondizionata. Si tratta anche di una classica allegoria per la moglie/figlia dell'uomo di potere, di cui difende ad nauseam le posizioni conservatrici, consapevole che la differenza di status la preserverà dalle disparità che va infliggendo alle altre donne. La moglie di Reagan, negli anni '80, ad esempio.
Ryan Gosling, nei panni di K, è un uomo che dal nome stesso, appare alienato dal mondo dove vive: serve il sistema, svolge un lavoro odiato e odioso, è povero e depresso. Come la X di Malcom, K è uno schiavo. Non è un replicante, ma rimane un uomo disperatamente solo: senza amici, senza compagni, senza colleghi di lavoro, senza animali (ricordiamo il collegamento con il rom. originario di Philip Dick). In questo contesto l'unico contentino offerto dal suo lavoro è Joi, un programma di accompagnamento in formato umano. 
Qual'è la differenza tra Joi e i replicanti? Non c'è, ovvio. La condizione di schiavo dei replicanti è la stessa di Joi, con l'aggravante che nel suo caso è puro software, senza la possibilità di un hardware “fisico”. Ancora una volta si tratta di un'allegoria facilona: Joi, intrappolata nel suo ruolo di “angelo del focolare” mima i vestiti e i modi di fare di una casalinga anni '50. Joi non è programmata da K, ma dall'azienda di Wallace allo scopo di soddisfare i suoi clienti come una perfetta incarnazione della moglie ideale. La riduzione a ologramma di Joi, con la possibilità dell'on e off di K è un'ulteriore riduzione a oggetto.


Quello che si può scrivere a difesa dei replicanti, vale ugualmente per Joi. L'umanità delle macchine diventa tale a contatto con la disumanità degli uomini – Joi in tal senso inizia come un software particolarmente evoluto, ma si modifica gradualmente, man mano che K matura a sua volta.
Nell'originario Blade Runner Rick Deckard trattava i replicanti come delle macchine, disumanizzandoli; gradualmente acquisiva coscienza di cosa sta facendo, man mano che si rendeva conto dell'umanità a cui sta dando spietatamente la caccia. Sia Rick che K si rendono conto di essere sfruttati e nel contempo dello sfruttamento che vanno esercitando: il loro rapporto con i replicanti li rende più umani – e nel contempo i replicanti stessi, o nel caso Joi, diventano umani a contatto con la disumanità dei “vivi”. Joi rimane un'illusione, ma gradualmente si “stacca” dallo stereotipo acquistando un suo carattere, una sua personalità.
Ancora una volta, la metafora è tagliata con l'accetta: Joi è un ologramma programmato sull'esempio di una casalinga anni '50, che entra in azione nel momento in cui K torna a casa. Il suo luogo è il focolare, nel senso letterale perchè vi risiede l'hardware di funzionamento. K, rendendosi conto di avere di fronte a sé una persona, non un oggetto, la libera dalla casa, ma nel contempo la scelta di Joi di “uscire” dal ruolo di casalinga è completamente sua: agli occhi della corporazione non dovrebbe, è oltre che un'infrazione delle sue leggi di funzionamento, un pericolo per il prodotto. K le fornisce le “gambe” per spostarsi al di fuori della casa, ma la scelta di Joi di uscire è tutta sua, anzi K per primo è riluttante.
Casalinghe, anni '50, replicanti, oggettificazione derivante dalla struttura economica capitalista e non dalle scelte culturali... è tutto così ovvio, steso sulla griglia pronto per un'analisi.
E' francamente incomprensibile come si sia potuto arrivare all'interpretazione opposta, ovvero a lamentare una negativa rappresentazione della donna in Blade Runner.

Azzardo qui un'ipotesi.
A mio parere, ciò che davvero irrita i detrattori di entrambi i Blade Runner è il suo profondo romanticismo. Il nuovo Blade Runner è un film estremamente romantico. 
Alienato dal suo impiego, K riversa tutto il suo affetto in Joi. Compie pertanto un atto totalmente disinteressato, senza alcun ritorno: innamorarsi di un ologramma in vendita, una creazione artificiale al più basso dei più bassi livelli della società. Questo gli consente nel contempo di elevare sé e Joi: entrambi i personaggi maturano una personalità e si smarcano dall'esistenza artificiale che conducevano. 
E' questo un elemento che irrita: K si vota totalmente a Joi, nega ogni possibile rapporto quotidiano. E' un equivalente degli otaku con le proprio waifu: votato anima e corpo, pienamente conscio della sua illusione, ma nel contempo mosso da un romanticismo totalmente disinteressato. 
Questo elemento disinteressato, incomprensibile per la mentalità meccanicistica e pragmatica di Wallace e Luv, costituisce oggigiorno un anatema, un'eresia. Lo spettatore, nell'esigua minoranza, che mesi fa ha guardato Blade Runner 2049 dev'essere conscio dell'essere un “replicante”: un estraneo che ha scoperto la sua umanità, contrapposto a masse di “umani” che si comportano come macchine, che misurano sul bilancino dei social vantaggi e svantaggi, perdite e ricavi. 
Un replicante umano in un mondo di umani replicanti.
  

2 commenti:

LorenzoD ha detto...

Incredibile che nessuno abbia lasciato un commento a questo bellissimo post. Ma dopotutto, non c’è molto altro da aggiungere.

È stato interessante come hanno aggiunto nel mondo di Blade Runner questi ologrammi senzienti.

Dopotutto, è facile (o dovrebbe esserlo) riconoscere l’umanità di un replicante: è fatto di carne e ossa, come noi. Ed è sottoposto a vincoli, a ingranaggi che lo tengono fermo nella sua posizione. Come noi.
Oggi, poi, siamo capace di creare replicanti: cloniamo scimmie e pecore. E dopotutto, tutti i migranti che arrivano in Europa, non ci sembrano forse tutti uguali, replicanti?
Il replicante in carne e ossa perde mordente.

Ma un ologramma… non ha solidità. È veramente solo un programma, molto evoluto, senziente, capace di evolversi, ma pur sempre un programma. Eppure il protagonista ne se innamora. Ricambiato, nel limite della programmazione. Hai fatto il paragone dell’otaku per la sua waifu. Ma bene o male tutti su internet ci appassioniamo a un sacco di discussioni virtuali, news su internet, etc… alle quali diamo un’importanza fisica forse eccessiva.

Un replicante in carne e ossa non bastava più. È il virtuale la nuova frontiera sulla quale si combatte la definizione di umano. Matrix ce lo aveva insegnato una ventina di anni fa. Non per niente uno dei personaggi chiave, Ana Stelline, crea ricordi, non un prodotto solido.

È interessante il paragone con Star Trek. Nella serie Voyager uno dei protagonisti è un ologramma, che con gli anni acquisisce carattere e umanità. Forse anche troppo: a un certo punto decide di condurre una rivoluzione per liberare gli ologrammi senzienti dalle loro condizioni di schiavitù.

È una direzione interessante che potrebbe prendere la serie (se andranno avanti con la serie).

Coscienza ha detto...


@LorenzoD

Hai sollevato alcuni punti decisamente validi all'articolo.

Il paragone con gli ologrammi di Star Trek mi sembra azzeccato, anche se non conosco a sufficienza il lore dell'universo per conoscere le diverse somiglianze. C'è anche chi ha ipotizzato che Joi sia semplicemente una macchina - un riflesso della personalità del protagonista, del quale rispecchia speranze e ambizioni. La pubblicità infatti presenta Joi proprio come il partner che ti asseconda in ogni tua mossa - ed è quanto Joi fa, nel bene e nel male. Non è un'interpretazione che mi convince molto, ma solleva alcuni punti interessanti.

Non credo ci sarà mai un seguito, il film ha fallito tanto al botteghino quanto agli oscar. A pity, ma d'altronde era stato anche il destino del primo capitolo, c'è una certa poetica giustizia.