venerdì 26 agosto 2016

Ivo Andric, Il ponte sulla Drina


1516. Tributo bambino al Sultano, futuro giannizzero e visir, Sokullu Mehmed Pasha vede dalla sua cesta passare il fiume Drina. Il traghetto lo traversa lento, ondeggiando paurosamente tra i flutti bianchi di spuma. Nella mente del bambino sorge una meravigliosa visione: un ponte di pietra bianca, collegamento tra Serbia e Bosnia, che rivoluzioni la vita della piccola cittadina di Visegrad.
1571. Sotto la guida del crudele consigliere Abigaga, inizia la costruzione del ponte sulla Drina.
1573. Abigaga tiranneggia gli operai, li maltratta. La costruzione va a rilento. Un anziano serbo, che vede nel ponte un'infamia dei turchi e dell'Islam, lo sabota di notte. E' catturato e impalato.

Credo sia nella scena dell'impalamento che il romanzo di Ivo Andric, Il ponte sulla Drina, mostra davvero di che pasta è fatto. Fino a quel momento il romanzo poteva infatti sembrare un'allegra scampagnata, una rievocazione con lacrimuccia all'occhio del passato bosniaco dello scrittore, nato proprio a Visegrad. Il romanzo infatti parte con un incipit degno dei Promessi sposi, con un'ampia descrizione geografica del luogo e dei suoi abitanti nell'800. Già tuttavia al momento di descrivere il ponte, un gusto per il sangue e il macabro trapela a spezzare l'eccessiva nostalgia, il rischio di una descrizione pastorale e artefatta:

Sanno che la costruzione è stata osteggiata dallo spirito del fiume, così come sempre e ovunque qualcuno ha contrastato ogni nuova costruzione, e che lo spirito stesso durante la notte distruggeva quel che si faceva di giorno. Questo accadde finché “qualcosa” parlò dall'acqua, consigliando a Rade l’Architetto di trovare due fanciulli, gemelli, fratello e sorella, Stoja e Ostoja, e di murarli dentro il pilastro centrale del ponte. (…) I bambini vennero murati perché non era possibile fare altrimenti, ma l’Architetto, stando a quel che si racconta, si impietosì e lasciò nei pilastri delle aperture attraverso le quali l’infelice madre poté allattare le sue creature sacrificate. Sono proprio quelle finestre cieche finemente disegnate, strette come feritoie, nelle quali adesso nidificano i colombi selvatici. In ricordo di questo episodio, già da centinaia di anni, cola dal muro il latte materno, cioè quei rivoletti bianchi e sottili che, in un determinato periodo dell’anno, sgorgano dalle giunture compatte lasciando indelebili tracce sulla pietra. (Lo spettacolo del latte muliebre suscita nella coscienza dei ragazzi qualcosa che le è fin troppo vicino e nauseante e, al tempo stesso, confuso e misterioso come i visir e gli architetti, qualcosa che sconcerta i bambini e li respinge.) Quelle incrostazioni lattee sulle colonne vengono grattate e vendute come polveri terapeutiche per le donne che non hanno latte dopo il parto.

Qui vediamo all'opera una delle tecniche di Ivo Andric, che consiste nel presentare una narrazionemitologica”, per poi spiegarne la causastorica”. Nel caso in questione, molto più avanti nel testo, apprendiamo come i continui sabotaggi al ponte siano dovuti ai cristiani serbi scontenti nell'area.
Il popolino, che non può saperlo, crede invece che i danni al ponte siano dovuti a un demone femminile della Drina contrario al Sultano (proiezione dell'odio verso lo stesso). L'unico modo, secondo la superstizione, per allontanare il demone è sacrificare due gemelli. Le perlustrazioni poliziesche dei soldati turchi alla ricerca dei colpevoli vengono così viste come la ricerca dei due gemelli. Si capisce la nascita del mito quando in un villaggio una ragazza muta e mentalmente deficiente partorisce due gemelli morti. Per calmarla, i contadini del posto le mentono, dicendole che sono stati rapiti dai turchi e murati nel ponte. La ragazza diventa una vagabonda che chiede la carità alla Drina, domandando di continuo dove sono finiti i suoi figli. Da qui la leggenda.
Il passaggio citato ci permette di vedere anche un'altra tecnica di Ivo Andric: una narrazione lenta e tranquilla, che tuttavia non lesina colpi durissimi al lettore. Siamo nelle prime pagine e già discorriamo di bambini murati vivi e pietre che grondano latte umano (!). E' interessante come molti lettori “offesi” dalle scene gore di alcuni horror non battono ciglio quando leggono scene identiche in un romanzo “normale”, in questo caso in un romanzo di storia. Prova piuttosto convincente di come un'etichetta possa rovinare la lettura con stupidi pregiudizi, specie nel caso del lettore italiano.
Inoltre, se avete notato, il ritmo stesso delle parole si mantiene calmo e indolente, indifferente quale sia l'argomento. Al limite le frasi si abbreviano, ma Ivo Andric non si scompone mai: può essere una storia d'amore, come una fila di teste mozzate dal Sultano, ma il tono rimane lo stesso.
Un'ammirevole padronanza dei sentimenti, quasi inglese.

Difficile in realtà parlare di romanzo, perchè ci troviamo di fronte a una raccolta di racconti: una serie di storie che ruotano attorno al ponte, ai suoi traffici alle sue guerre. Il villaggio di Visegrad è promosso a snodo commerciale, cittadina a tutti gli effetti dalla costruzione del ponte; assistiamo alla prima metà del libro alle diverse fasi dell'Impero Ottomano, dalla massima fioritura nel '500, al declino del '600, alle brutalità controrivoluzionarie del '700 e dell'800.
Il ponte, per com'è presentato, è un monolite, un oggetto inamovibile e perfetto: come le onde del fiume Drina tentano invano di sommergerlo, così le vite dei Visegradesi si infrangono, con le loro sventure e comicità, sui pilastri e le arcate bianche del ponte.
La ricostruzione storica è accurata, non risparmia né vocaboli del luogo, né dettagli minuti.
Merd~an aveva visto che, in cima alla scapola destra, i muscoli si erano tesi e la pelle si era sollevata. S’avvicinò e tagliò celermente quella protuberanza con due incisioni a forma di croce. Sgorgò fuori del sangue biancastro, dapprima lentamente, poi sempre più forte. Ancora due o tre colpi, leggeri e cauti, e infine dal punto inciso cominciò a venir fuori l’estremità del palo, ricoperta di ferro battuto. Batté ancora per un po’, finché la punta non raggiunse l’altezza dell’orecchio destro. L’uomo era stato infilzato al palo come un agnello allo spiedo, solo che la punta non gli usciva dalla bocca, ma dalla schiena, e non era stato leso in modo grave né all’intestino, né al cuore, né ai polmoni.

Non si smette mai d'impalale cose nuove!
Senza spaventare i lettori più sensibili, questa è l'unica scena dove c'è questo genere di descrizioni. E tuttavia, come avevo già ribadito più su, il romanzo è apprezzabile proprio perchè “ruvido”. I nostalgismi sono tenuti a freno, il piglio critico rivolto a tutti.
Andric tratteggia anche bene gli equilibri di potere all'interno di Visegrad; il passaggio dei secoli è anche il passaggio di consegne dai turchi emigrati (di recente islamizzazione nel '500) ai serbi ortodossi e alla minoranza ebraica (sotto l'Austria-Ungheria). Un'autorità scende, un'altra s'innalza. Nel contempo Andric con pennellate bene apposte qui e lì, sottolinea anche un'omogeneità di carattere tra i Visegradesi, data dal carattere pacione, un po' pigro, abile negli affari senza fissarsene.
Al termine del romanzo il lettore s'è fatto un'idea intuitiva di come siano i Visegradesi, senza dubbio un bel risultato per Andric che a Visegrad aveva vissuto. 

Ovviamente, quanto ci interessa è la seconda parte del libro, la dominazione austro-ungarica.
Andric comprende benissimo il carattere della “statica grandiosa” di Francesco Giuseppe. Fin dalla prima dichiarazione e dall'incontro tra le truppe asburgiche e i rappresentanti di Visegrad, l'impressione maggiore è la mediocrità. Ma in perfetto accordo con il mito asburgico, una mediocrità positiva!
Il dominio coloniale in Bosnia-Erzegovina è il dominio di burocrati e uomini incolore, votati all'Imperatore e alla causa, calmi e pazienti. Abbiamo qui concentrati gli attributi positivi di ogni ufficiale coloniale (specie inglese) di ogni luogo e tempo: pragmatismo, solitudine dai selvaggi, progresso tecnico e migliorie mediche.
L'Austria-Ungheria reprime ogni slancio, ogni entusiasmo, ma nel contempo reprime anche ogni avventatezza, ogni brutalità. Il “progresso” a Visegrad arriva gradualmente, senza fretta.
Gli austriaci non sono un'unica razza: arrivano ungheresi, sloveni, un italiano persino, ebrei da Vienna ed ebrei galiziani. Qui aprono una locanda, lì installano un bordello. La sensazione è di vedere all'opera un esercito di formiche.
Il nuovo governo, dopo i primi malintesi e i primi urti, lasciò nella gente un’impressione ben ferma di saldezza e di durevolezza. (Esso stesso si cullava in questa illusione, senza la quale non esiste governo duraturo e forte.) Era un governo impersonale, indiretto, e per ciò stesso più facilmente tollerabile di quello turco che c’era stato prima. Tutto quello che in esso v’era di crudele e di rapace veniva nascosto dal decoro, dallo splendore e dalle forme consacrate. La gente temeva il governo, ma allo stesso modo che si ha paura della malattia e della morte, non già come si trepida per la malvagità, la miseria e la violenza. Gli esponenti del nuovo governo, militari e civili, erano, per lo più, estranei al paese e inesperti della popolazione, e inoltre di per se stessi insignificanti, ma a ogni passo si sentiva che erano parti minute di un grande meccanismo, e che dietro a ciascuno di essi si trovavano, in lunghe file e su infiniti gradini, uomini più potenti ed enti più grandi. Ciò conferiva loro un aspetto che trasfigurava fortemente la loro personalità, e una magica efficacia cui ci si sottoponeva facilmente. Con la loro professione, che lì sembrava importante, con la loro pacatezza, con le loro consuetudini europee, essi incutevano nella popolazione, così diversa da loro, fiducia e rispetto, pur senza suscitare invidie e concrete critiche, benché non fossero né graditi né amati.

So che è una citazione un po' troppo lunga, ma serve per evidenziare bene il modo di governare sotto Franz Joseph. E' una forma di potere che si basa su una serie di splendidi paradossi.
E' un potere che sa di essere tale solo in virtù di un'autoconvinzione, di un diritto divino che sa bene inesistente - “esso stesso si cullava in questa convinzione”.
E' un potere di uomini mediocri - “di per sé stessi insignificanti” - trasfigurati però dal semplice senso del dovere e della fedeltà all'Imperatore - “si sentiva che erano parti minute di un grande meccanismo”.
E' un potere neutro, defilato, addirittura definirei bonaccione - “con la loro pacatezza”.
Non c'è bisogno di razzismi, di missioni civilizzatrici, di lezioni agli indigeni - “con le loro consuetudini europee”.
Come spiegava bene negli anni '60 con la sua tesi di laurea Claudio Magris, il senso della statica grandiosa consiste nel rinviare all'infinito i problemi, di sezionarli con la burocrazia, di sperare che passino oltre, se ne vadano, come avevano già fatto in passato.
Può sembrare un'idea attendista alla sua massima potenza, ma quante volte “destini” dell'uomo, irreversibili futuri dell'umanità sono state smentite dai fatti?
L'identità tra popolo, stato e territorio nella forma dello stato-nazione è ora talmente criticata e il suo fallimento talmente sotto gli occhi di tutti che nessuno può definirlo “il futuro”. Dallo stato etnico con le sue interminabili pulizie etniche in Africa, al successo della Germania con i Lander e una struttura federale tutt'altro che nazionale, alla nazione tossica per eccellenza, gli Stati Uniti, lo stato-nazione è un fallimento clamoroso.
Con la conoscenza che abbiamo oggigiorno della storia tranquillamente possiamo rigettare lo stato-nazione. E in tal senso, non aveva ragione Francesco Giuseppe, a tenere duro nella sua “prigione di popoli”, in realtà molto più liberi e nazionali sotto un impero che nella ridicola ragnatela di staterelli attuale? Non aveva ragione, nel definire le tendenze del suo tempo transeunte e passeggere?
Oggigiorno siamo molto più eguali, cittadino a cittadino, sotto una monarchia costituzionale come L'Inghilterra, o la Svezia, che in una (pseudo)repubblica come gli Stati Uniti.
Non vi basta? Vogliamo parlare del rifiuto di Francesco Giuseppe, dopo le batoste avute in guerra, a entrare in ogni genere di conflitto? Al rifiuto, ad esempio, ripetuto e costante, a entrare in guerra tra il 1912-13 o alla stessa riluttanza (profetica) a scatenare la Prima Guerra Mondiale?
Certo, una mediocrità rovesciata nel positivo resta una mediocrità.
Leggere però della Bosnia-Erzegovina sotto gli Asburgo come di un territorio in forte e positiva crescita (come in effetti i dati economici dell'epoca confermano) è rinfrescante.


Gli ultimi capitoli, tra fine '800 e inizio '900, raccolgono la gran parte delle storielle del libro.
Alcune sono molto belle, altre francamente noiose. Ho apprezzato la storiella di Gregor Fedun, l'ucraino sognatore ingannato dalla giovane musulmana. Bello anche il racconto del giocatore d'azzardo, che ricorda il Buzzati del Deserto dei Tartari (la partita a carte nella neve). Andric è bravo a bilanciare soprannaturale e realismo, al punto che nonostante l'atmosfera onirica non compaiono mai personaggi fantasy, tranne che nella mitologia dei locali.

Per tutta la lettura e per tutta la recensione, continuavo a chiedermi: ma non ricorda, Ivo Andric, un po' il Sapkowski dello Strigo? Novgorod, Visegrad, ViseNgrad... Non c'è una simile atmosfera?
Dopotutto, Sapkowski è polacco, Andric bosniaco... si tratta di scrittura slava, siamo un po' lì, no?
Mi capita spesso, nelle recensioni americane e inglesi, d'incontrare questo genere di ragionamento e lo ritengo fortemente sbagliato. Non esiste e non esisterà mai un sapore distintivo per gli scrittori dell'Europa dell'Est. E' un'assurda proiezione che facciamo noi occidentali, attribuendo caratteri “speciali” a scrittori perfettamente normali ai nostri.
Sapkowski è un bravo scrittore polacco, ma è bravo scrittore perché bravo a scrivere (e a documentarsi), non perchè polacco. Sebbene attinga alla mitologia slava, le sue fonti sono anche la storia europea in generale, francese e italiana, senza trascurare l'acuta satira delle cultura po(o)p americana.
Allo stesso modo, Ivo Andric ha profuso molto di “suo”, della sua biografia, nel romanzo: Il ponte sulla Drina è sicuramente locale, legato a quella data terra e a quel dato ponte. Tuttavia, è anche un buon romanzo sotto gli standard dei romanzi di storia internazionali. Ha buone descrizioni, che vanno nel concreto, un buon lavoro di ricerca, un buon uso del linguaggio. Non è bello solo/ o perchè “slavo”. Bisogna smetterla col considerare ogni prodotto dell'Est, nel bene o nel male, come un manufatto storico di una certa mentalità e di una certa nazione.
I videogiochi ucraini pertanto, riflettono tutti il trauma di Chernobyl, mentre The Witcher, con i Nilfgaardiani, riflette la tirannia comunista nel dopoguerra. Queste, sono, emh, cazzate.
Shadow of Chernobyl è un videogioco ucraino ambientato in un post atomico non così diverso da Fallout; The Witcher è un fantasy con le sue radici nell'Europa medievale tutta, non solo in quella dell'Est. Quello che combinate è “ghettizzare” quel prodotto culturale con un'etichetta che voilà, ne impedisce l'analisi critica (positiva o negativa, poco importa). E' un meccanismo simile di chi, per giudicare un libro di una scrittrice, dice che possiede uno stile “distintamente femminile”. L'uso di uno stereotipo – l'idea che esista una scrittura distintamente femminile – permette di sminuire e tralasciare lo sforzo di una vera recensione. Così lo scrittore “slavo” finisce per avere la voce “della sua terra” e la scrittrice donna, una voce “tipicamente femminile”. L'attenzione e gli allori vengono così rivolti altrove e alle due categorie rimane il biscottino (che sa un po' di merda) dell'essere “speciale”. Per altro, i diverbi e le diversità tra chi etichettate come “Europa dell'Est” sono talmente alte, stridenti, che vederle “accomunate” è assurdo. Senza nemmeno citare chi, a quest'autentico mucchio, aggiunge con nonchalance l'intera Federazione Russa...

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